9 giorni di guerra

Noi occidentali ci siamo trasformati ma per fermare Putin non basta

Paola Peduzzi

In una settimana siamo passati dal realismo freddo degli interessi nazionali all’interventismo liberale di cui non si vedeva più traccia da anni nei consessi di politica estera; ma serve un nuovo calcolo del rischio di un maggior coinvolgimento militare

La sera del 23 febbraio, alla vigilia dell’invasione russa in Ucraina, Kyiv appariva come una delle tante e belle capitali dell’est europeo: vitale e trafficata, aveva voglia di ballare e diceva al mondo che no, i russi non avrebbero spento le sue luci né quelle dell’Ucraina. Nove giorni dopo, ci arrivano immagini di vuoto e distruzione, Vladimir Putin ha rubato la normalità alla vita ucraina, trasformandola in una vita di guerra. Ci sembra una banalità dirlo ora, perché abbiamo gli occhi pieni di colonne di fumo, di macerie, di mezzi militari, di elmetti e carri armati e la pace sembra già un ricordo, una cosa cui abbiamo rinunciato perché non era condivisa, ma non lo è: il presidente russo ha lanciato un’offensiva militare in un paese pacifico in nome di una propria ambizione nostalgico-nazionalista e mortifera. Le luci si sono spente, le famiglie si sono separate, c’è chi scappa, c’è chi si nasconde, c’è chi impara a fare le molotov, chi canta ai russi “non vi vogliamo qui, portate solo guerra”: ogni cosa è stata stravolta e se chiedi perché ti dicono: chiedilo a Putin. Già, Putin: si vuole prendere quel che considera pretestuosamente suo, forse non si fermerà all’Ucraina, intanto a guardare la mappa si vede la sua strategia che prende forma, a est e soprattutto nel sud, dove costruisce un corridoio da Mariupol’ a Odessa conquistando il cuore dell’Ucraina, il fiume Dnepr. 

 

Gli Stati Uniti e l’Unione europea (ieri eccezionalmente riunita con i partner inglesi) hanno usato tutti gli strumenti finanziari a loro disposizione per strangolare l’economia russa: mai vista una compattezza così limpida e coordinata. L’opinione pubblica, in Europa, è cambiata in modo netto: nella stazione di Berlino, in quella Germania trasformata dalle migrazioni dal 2015 in poi, ci sono le file di tedeschi con cartelli in cui indicano quanti ucraini possono accogliere nei loro appartamenti. I finlandesi, che non sono attivi in una guerra dall’inizio dell’Ottocento, ora sono a favore dell’ingresso nella Nato. La Turchia, cioè il paese che più ha messo in discussione la tenuta ideologico-morale del costrutto europeo, ha ripreso in mano le carte della sua adesione all’Ue. La Polonia dei muri è il punto di ingresso più accogliente possibile per chi scappa dall’Ucraina. In una settimana siamo passati dal realismo freddo degli interessi nazionali all’interventismo liberale di cui non si vedeva più traccia da anni nei consessi di politica estera. 

 

Eppure non basta. Dalla solidarietà all’Ucraina si è passati a “Stop Putin”. E per fermare Putin bisogna mettere mano ad altre certezze, calcolare i rischi di un maggior coinvolgimento militare che sia diretto e non solo indiretto. E’ il calcolo più difficile per un occidente che ha scommesso su commerci ed economia per garantire e difendere la pace, eppure quello che non si può sbagliare.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi