Volodymyr Zelensky, il comico eroe
Da “Ballando con le stelle” alla mimetica, da Paddington alle armi. Ecco l’epopea del presidente ucraino, che somiglia a un film di Lubitsch
Non è certo la prima volta che un comico sfida un dittatore. E non è una novità l’attore che diventa presidente. Ma “Il grande dittatore” di Chaplin, o l’elezione di Reagan o anche l’irruzione di Trump, star dei reality-show, non raggiungono la sfrontatezza, la grandiosità, il surrealismo davvero epico e anche assai tragico della strampalata vicenda di Zelensky. Comico, sceneggiatore, regista, produttore, star della tv, voce dell’orsetto “Paddington”, vincitore della prima edizione di “Ballando con le stelle”, presidente dell’Ucraina prima per finta, poi sul serio, quindi catapultato dalla Storia nel ruolo dell’antagonista di Putin, e ora icona della resistenza, ispirazione per l’Europa e l’Occidente, indomito difensore di una civiltà assediata, come un eroe della Marvel: “Zelensky Infinity War”. Nella parabola del “presidente venuto dal Cabaret” (copyright Giuliano Ferrara), nelle peripezie del leader che nell’ora più buia si rivolge a TikTok, c’è davvero tutto il nostro tempo.
Oltre il piccolo, scaltro comico che sfida la furia dello Zar, Zelensky è il figlio prediletto di un’epoca in cui la realtà e la cronaca danno lezioni di sceneggiatura ai film e alle serie tv. Nessuno sembra averlo capito meglio di lui. Di colpo, come diceva Michele Masneri, Zelensky “ha fatto invecchiare ‘Don’t Look Up’ come se fosse un film di Frank Capra”. L’invasione in Iraq di Bush padre fu il primo conflitto costruito in funzione delle immagini televisive, coi bombardamenti notturni e i bagliori verdi della contraerea trasmessi in diretta sulla Cnn. Zelensky inaugura invece la guerra nell’epoca degli influencer e dei selfie. Come quelli che si fa col ministro della Difesa, Reznikov, o con cui s’immortala tra le strade e i monumenti di Kyiv per tenere alto il morale degli ucraini. Icona pop, esempio di coraggio indomito, ma anche esibizionista, come ogni attore che si rispetti, Zelensky è la nostra “new hope”. Un “eroe ebreo”, specificava un articolo uscito sull’Atlantic qualche giorno fa (“How Zelensky Gave the World a Jewish Hero”), un guerriero della Torah, il vendicatore degli ebrei ucraini di Babyn Yar e dell’Europa dell’est. Mentre è il bersaglio numero uno dell’“armata Wagner”, gli spietati e famigerati mercenari russi al soldo di Putin che gli danno la caccia, Zelensky tiene banco sulle copertine di Time e Vanity Fair e in un numero incalcolabile di meme, mash-up e recut sui social, dove la sua guerra infondo l’ha già vinta.
Per raccontare Zelensky e questo ipnotico détournement della realtà e della finzione bisogna partire dal suo account Instagram, “zelensky_official”, che apre all’inizio del 2017. Zelensky è già famoso. Ha trionfato a “Ballando con le stelle”, ha recitato in varie commedie romantiche di successo, da un paio d’anni è l’idolo di “Servo del popolo”, la serie in cui diventa presidente dell’Ucraina grazie a un video virale in cui se la prende con la casta, e che ora conosciamo tutti anche se non l’abbiamo mai vista (col format “comico-contro-la-casta” abbiamo già dato, non risfideremo la sorte solo perché agli ucraini è andata così bene). A vedere tutte insieme le sue foto su Instagram, scorrendole dalla prima all’ultima, siamo già dentro una drammaturgia perfetta: all’inizio c’è la celebrity spensierata e sbruffona che si diverte sul set, in vacanza con gli amici, che si allena in palestra e cazzeggia come tutti noi. Poi, all’improvviso, una parata di Zelensky serio e impettito, sempre in completo scuro. Ora è il presidente dell’Ucraina che inaugura eventi, tiene discorsi, incontra i leader di tutto il mondo (per la gioia del complotto giudaico-massonico c’è anche una foto con Mark Zuckerberg). Poi il terzo atto. Una valanga in tenuta militare. Stanco, provato, con le occhiaie, ma grintoso. Zelensky nelle strade, nei bunker, nel suo studio. Zelensky che sfida a viso aperto il cattivissimo leader del Cremlino, sprona e rimprovera europei e americani, guida la resistenza. Le sue parole diventano subito motti, slogan, hashtag. Finale aperto. Quel che è certo è che il ruolo sembra cucito su misura per lui.
Zelensky conosce la parte. Ogni trama sembra rimandare al “grande disegno”. Persino “Paddington”, l’orsetto animato cui ha prestato la voce, è in tutte le case con bambini il vero competitor di “Masha & Orso”, cartone animato di sfrontata propaganda putiniana, tutto giocato sulla nostalgia per la grande Unione sovietica (lo diceva anche il Times in tempi non sospetti, paragonando la piccola Masha a una guardia di frontiera russa e la sua difesa di un campo di carote alla politica di difesa dei confini russi). L’orsetto Paddington, creatura inglese e liberale, viene invece fuori dalla penna di Michael Bond, scrittore che prestò servizio nella Royal Air Force e nel 1958 pubblicò il primo volume della saga, “A bear called Paddington”. Bond diceva di essersi ispirato ai “Kindertransport”, l’operazione con cui l’Inghilterra accoglieva i bambini ebrei fuggiti dall’Europa occupata dai nazisti, attraverso un corridoio umanitario. Ogni bambino aveva il nome cucito sulla giacca e un bagaglio, proprio come Paddington, che arriva a Londra in fuga dal Perù, con una targhetta sul cappotto e una valigetta in mano. La propaganda di “Masha & Orso” è però più capillare, come quella russa, appoggiata dalla grande distribuzione e da tutti i giocattolai pro-Putin (mentre “Paddington” nei negozi non si trova mai, l’ho dovuto ordinare su Amazon Uk). In una vicenda in cui i rimandi tra trame e sottotrame si perdono in un gioco di specchi sempre più ingovernabile (c’è anche la serie Netflix, “Occupied”, con la Norvegia invasa dai russi e l’Europa che tentenna), stupisce che tra un Gogol’ e un Babel’ e un Puškin e un Bulkakov e un Dostoevskij, nessuno abbia tirato fuori il Lubitsch di “To be or not to be”. Uscito giusto giusto ottant’anni fa, distribuito in italiano col pessimo titolo di “Vogliamo vivere!”, facendo cadere il pregevole riferimento shakespeariano, “To be or not to be”, appartiene alla cerchia dei grandi capolavori del Lubitsch americano, e alla rara specie di opere cinematografiche capaci di superare il proprio tempo. Saccheggiato prima da Tarantino per “Inglorious Basterds” e ora dalla cronaca, “To be or not to be” ha molto da insegnarci sul coraggio travolgente di Zelensky, sui comici, il pacifismo, la guerra, l’esorcismo dell’umorismo ebraico, la finzione che diventa più vera del vero. Lubitsch iniziò a lavorare al film quando Hitler sembrava invincibile in Europa. L’idea gli fu suggerita da Alexander Korda, regista e produttore ungherese trasferito a Hollywood e poi a Londra. Dopo aver visto al cinema, “Il Grande dittatore” di Chaplin, Korda pensò che quella fosse materia perfetta per il “Lubitsch touch”. E Lubitsch, del resto, aveva appena sbeffeggiato il comunismo con “Ninotchka” (“portare le valige degli altri non è un mestiere, è un’ingiustizia sociale!”, dice la Garbo arrivata alla stazione di Parigi da Mosca, “dipende dalla mancia”, risponde il facchino).
“To be or not to be” nasce così come film “interventista” nel quadro della propaganda anti-nazista americana, ma non è l’ennesima spy story drammatica (oggi quasi tutte dimenticate). Ebreo berlinese, di origini russe da parte paterna, Lubitsch è scosso dalla guerra e dalla marcia trionfale di Hitler, ma è pur sempre il maestro della commedia sofisticata. La satira del nazismo, o meglio la “black-comedy” che ha in mente (categoria praticamente inventata da lui) è diametralmente opposta alla beffa del “Grande dittatore”. “To be or not to be” non è un film sulla pace, l’uguaglianza e la fratellanza tra i popoli che risuonano nello struggente monologo finale di Chaplin, ma una commedia che tra una risata e l’altra invita a schierarsi, a prendere posizione in favore delle democrazie liberali: “Odio e ancora odio è la risposta all’invasione nazista…‘V’ for Victory…abbasso il nazismo…abbasso Hitler!”.
Anche Zelensky oggi non sembra molto interessato alla linea Chaplin-“Imagine” (appelli, arcobaleni, fiaccolate, marce per la pace e flash-mob “contro tutte le guerre”, senza distinzioni, per essere inclusivi), ma chiede armi, supporto, aiuti concreti per difendersi dall’invasore. In “To be or not to be”, una compagnia di attori polacchi deve mettere in scena una commedia antinazista. All’inizio assistiamo alle prove di questa farsa strampalata, con l’attore conciato da Hitler che entra in scena dicendo “Heil Myself!”, o Carole Lombard che si presenta in abito di lamé assai scollato sulla schiena, per interpretare la prigioniera di un campo di concentramento (“così risalteranno meglio le frustate”). Si decide di rinviare lo spettacolo, Hitler potrebbe offendersi, meglio ripiegare sull’“Amleto”. La precauzione si rivela però inutile: gli eventi precipitano, la Polonia è invasa, la finzione del teatro sconfina nella realtà delle macerie di Varsavia (“i nazisti hanno messo in piedi uno spettacolo più grosso del nostro”). Gli attori di Lubitsch si trasformeranno così, loro malgrado, in eroi della resistenza polacca, senza per altro mai smettere di essere attori. Combattono e sabotano il nemico sfoderando tutto il loro repertorio di finzioni sceniche: barbe finte, travestimenti, barzellette, grande freddezza, senso e capacità d’improvvisazione. Il film diventa un torrente di gag, doppi sensi, equivoci che si rincorrono a ritmo forsennato, fino all’incontro fatale con il vero Hitler, ovviamente in un teatro.
“To be or not to be” riesce nel prodigio di tenere insieme l’humor ebraico e la propaganda interventista, lo smontaggio del nazismo e l’amore per Shakespeare, ma col suggeritore nella buca del teatro che sussurra “To be or not to be” all’attore che s’appresta al celeberrimo monologo. Lubitsch, che era stato attore per Max Reinhardt a Berlino, si fa beffa del narcisismo dei commedianti, dei loro capricci bambineschi, della boria di chi vive in funzione dell’applauso e dei riflettori, ma li trasforma anche in figure indispensabili, persino in mezzo a una guerra, e anzi straordinariamente adatte a tenere testa ai nazisti proprio in quanto attori.
Dopo la vittoria alle elezioni nel 2019, sul New Yorker uscì un ritratto di Zelensky che sottolineava l’importanza del suo bagaglio artistico. “Ciò che lo spettatore ama in un attore, questo sentimento di umanità, naturalmente lo uso”, diceva Zelensky, “e questo è molto facile da fare, perché io rimango me stesso”. “La politica è come il cattivo cinema: la gente recita troppo, si spinge troppo in là. Quando parlo con i politici, lo vedo nelle loro espressioni facciali, nei loro occhi, nel modo in cui strizzano gli occhi. Guardo le cose come un produttore”. Ecco perché oggi chiede a Putin di sedersi con lui al tavolo, uno di fronte all’altro, “non a trenta metri, come hai fatto con Macron e Scholz”. C’è il coraggio del leader che sta difendendo il suo paese con le unghie e coi denti. E c’è il talento, il mestiere, l’astuzia, la freddezza dell’attore che prova a portare il gioco dalle sue parti. Proprio come gli eroi di Lubitsch, Zelensky usa il suo repertorio d’attore per tenere testa al nemico, e lo fa anzitutto sui social, il nostro palcoscenico. Nessuno oggi se la sentirebbe di sminuire il suo passato di uomo di spettacolo, ballerino, attore, gagman, e anzi questa scia “pop” e assai leggera che si porta dietro è un punto di merito e di forza.
Alla sua uscita, nel 1942, con le sorti del conflitto assai incerte, “To be or not to be” fu invece accolto con freddezza, ignorato, o stroncato in nome di una “leggerezza scandalosa” e del “cattivo gusto” di scherzare sulla resistenza polacca affidandola a un manipolo di attori. Qualche anno dopo, rivendicando il primato della commedia sul dramma, e l’idea che “non si sputa mai sopra a una risata”, come dice uno dei personaggi di “To be or not to be”, Lubitsch scrisse una lettera in difesa del film. “‘To be or not to be’ ha suscitato una serie di polemiche, e a mio avviso è stato ingiustamente attaccato. Il film non si prendeva affatto gioco della resistenza polacca: era solo una satira del teatro e del nazismo, dei metodi e della follia del nazismo. Per quanto ironica, sospetto che questa immagine del nazismo fosse più vera di quella che ci viene mostrata in tanti romanzi, racconti, film, dove i tedeschi appaiono tutti tesi a combattere e resistere finché possono. Io non ci ho mai creduto. E mi pare sia ormai sufficientemente provato che un vero spirito di resistenza fra i tedeschi non ci è mai stato”. Lubitsch inviò la lettera al critico Herman Winberg nel 1947, l’anno in cui morirà, dopo che la rivista inglese “Sight and Sound” gli aveva dedicato uno speciale, definendolo peraltro un regista ormai al tramonto.