Sul binario numero 4

Viaggio a Przemysl, dove Salvini viene contestato e gli altri partono per combattere in Ucraina

Micol Flammini

La stazione a pochi chilometri dal confine polacco si è ritrovata al centro del mondo. Qui passa chi scappa dalla guerra e chi vuole raggiungere l'Ucraina. Poi c'è il leader della Lega, che passa per fare figuracce

Przemysl, dalla nostra inviata. Przemysl è diventata una stazione del mondo. Qui si protesta contro Matteo Salvini, al quale il sindaco di destra Wojciech Bakun ha dimostrato che non valgono sempre i cambi di casacca: alcuni, come la passione per un presidente guerrafondaio, sono imperdonabili. Qui arriva chi varca il confine polacco per fuggire dalla guerra. Ma questa stazione è anche il posto da cui si torna indietro. Il treno che arriva da Leopoli riparte e non è mai vuoto. Non ha più un orario di arrivo e partenza preciso, si muove come può e chi vuole tornare in Ucraina attende: prima il treno deve  svuotarsi, poi va lasciato fermo per un po’, alla fine si riparte dal binario numero 4, separato dal resto della stazione, isolato e recintato. Se si contano i binari, il 4 non c’è, non è segnalato: si passa dal 3 al 5, il 4 è un confine a sé. Chi aspetta qui va incontro alla guerra, sono ucraini che già si trovavano in Europa per lavoro e che adesso fanno il viaggio inverso. Qualcuno va ad aiutare la famiglia rimasta in Ucraina, molti vanno per arruolarsi, per combattere una guerra che mai si sarebbero aspettati e della quale non capiscono le ragioni. Ad arrivare a Przemysl sono soprattutto le donne e i bambini, a partire sono gli uomini. Non importa l’età, anche chi ha più di cinquant’anni è pronto a combattere. 

 

Sul binario numero 4 sono tutti convinti che l’Ucraina vincerà la guerra, ha solo bisogno di uomini e di armi, ma soprattutto ha bisogno che la Nato chiuda i cieli. “A terra ci pensiamo noi”, dice Roman, “ma bisogna fermare la distruzione che viene dall’alto”. Non si sentono soli, ringraziano soprattutto la Polonia, ma sono convinti che la Nato abbia paura di Vladimir Putin: “Se non lo temiamo noi, perché dovrebbe la Nato, che è più forte della Russia?”. Chi arriva e chi parte non è disperato, gli ucraini che fuggono o che tornano hanno voglia che questa guerra finisca in fretta, ma non si sentono senza speranza. Gli uomini che tornano a Leopoli dicono che prima o poi finirà, che la Russia non si è resa conto di aver allenato un popolo di soldati e guerrieri: “Il problema dei russi è che durante l’Unione sovietica mandavano gli altri a combattere – dice Gennady – Noi, i ceceni, i georgiani. Loro la guerra non sanno farla. Si sono tenuti la forza militare, ma poi c’è bisogno degli uomini che la sappiano usare”. 

 

foto di Micol Flammini

 

Gli uomini del binario numero 4 dicono che tutto questo è scoppiato per colpa di un uomo uscito di senno, che prima almeno sapeva trattenersi, ora è fuori controllo. Sostengono che ci vorrebbe qualcuno per toglierlo di mezzo, si leva anche qualche voce pronta a proporsi: “Non ho paura neppure di questo”, dice l’unico che ha addosso la mascherina. Un po’ in disparte c’è anche un piccolo gruppo di signore, una di loro deve arrivare a Dnipro, trascina una valigia pesantissima e sorride indicando il gruppo degli uomini: “Gli ucraini!”, sospira. La sua preoccupazione è che il treno parta senza di lei. Vorrebbe andare a prendere da mangiare, e teme di metterci troppo. Si offre un ragazzo con la felpa rossa, lui non ha mai combattuto, da otto anni vive in Polonia e ora sta tornando per fare la guerra. “No, no – declina lei l’offerta – Se il treno deve partire senza uno dei due, meglio che lasci a terra me, tu servi di più”. 

 

Al binario numero 4 i volontari che portano i viveri non arrivano, arriva però un gruppo di evangelici giunto dalla Norvegia per parlare di fede e offrire caramelle. Le signore del binario numero 4 ascoltano con cortesia. Gli uomini sono impazienti e prendono le caramelle. Il ragazzo con la felpa rossa è l’unico che sa un po’ di inglese, improvvisa una traduzione: “Lascia che Gesù bussi alla porta del tuo cuore, non dimenticarlo”. Roman dice che non l’ha dimenticato, ma adesso serve che lui e gli ucraini tornino a casa e prendano le armi. E dice al ragazzo di tradurre: “Sa perché noi siamo i più bravi a combattere? Perché abbiamo sangue cosacco. Gesù non aveva sangue cosacco, la guerra la possiamo risolvere noi. Non lui”.
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)