Strambi e sognatori

La Russia che non ci sarà più

Ben Judah

Nei primi anni Duemila noi millennial occidentali ci aggiravamo per Mosca, curiosi e appassionati, convinti di avere tutto il tempo per scoprire questo paese in trasformazione. Poi “lui” ha fatto il suo, di cambiamento

Eravamo in tanti a Mosca, allora. Sciocchi millennial euro-britannici, che cercavano di fare i giornalisti, galleggiando in un mondo ubriaco di bevande “hackpack” e liberali russi. Eravamo lì con i nostri visti, sognatori e strambi, in overdose di storia russa o di Red Alert II, e facevamo la spola con Londra. Ci sedevamo ai tavoli dei bar sulla Bolshaya Nikitskaya, pieni di fumo, alle tre del mattino con tutti i nostri amici russi. I moscoviti che amavamo e con cui uscivamo erano: diplomatici esilaranti, reporter pronti a tutto o figlie lunatiche di minigarchi. Alla fine del primo decennio degli anni Duemila, noi ventenni alla deriva davamo per scontata la nostra libertà. Si poteva avere un amico che faceva qualcosa di poco chiaro a Shanghai. Qualcun altro imparava l’arabo annoiato ad Aleppo. Si poteva andare in uno qualsiasi di questi posti. Non ci siamo mai resi conto che stavamo vivendo in un’epoca d’oro di basso profilo: un periodo in cui le cose erano più o meno aperte e a posto. 

 

Sembrava tutto così facile. Siamo andati in modo così casuale in questi posti. Ora non passeremo mai più lunghi pomeriggi a fumare nell’Istituto francese lamentandoci di quanto sia tutto così noioso a Damasco. Non ci ubriacheremo più negli hutong vicino alla Torre del tamburo a Pechino parlando di grandi sogni di denaro né vedremo Hong Kong per la prima volta e penseremo: potrei vivere qui per sempre. Potremmo tornarci, un giorno, e passeggiare, come abbiamo fatto, attraverso Aleksandrovsky Sad. Ma il terreno non ci sembrerà più saldo sotto i nostri piedi. Perché quella Mosca che conoscevo – notturna, audace, ubriaca – infine è stata completamente distrutta. E’ successo quando lo abbiamo visto – c’è stato un solo “lui” a Mosca per molto tempo – dichiarare “un’operazione militare speciale” alle 5:45 del mattino. La metà di quei personaggi con cui bevevo mi mandava messaggi su WhatsApp sotto choc: l’ha fatto davvero. Ora stiamo guardando una mappa passare dai colori di un paese a quelli di un altro. E’ così terribilmente semplice. E’ successo così tante volte. E persino twittare che quello che sta facendo in Ucraina è una guerra potrebbe significare quindici anni di prigione.  Eppure anche con tutti quei master in Studi russi non riuscivamo a concepire una cosa del genere.

 

Minuto dopo minuto il crollo del capitalismo russo arriva negli avvisi di Telegram. Apple lascia la Russia, Netflix sospende le operazioni, così come Louis Vuitton, marchio dopo marchio dopo marchio, si ritira finché, nonostante il mio lavoro sia analizzare questa roba, riesco a malapena a dare un senso alle sanzioni e ai controlli sui capitali che hanno tagliato fuori la Russia dal mondo. E in qualche modo sono finito in un think tank che il Cremlino ha etichettato come “organizzazione non gradita” e questo significa che non posso nemmeno telefonare a metà delle persone che vorrei perché sono preoccupato di quello che potrebbe succedere a loro. La Russia è passata attraverso uno specchio e posso solo vedere il mio tempo lì come Stefan Zweig. Un mondo di ieri. 

 

Ora, un decennio di ossessioni ha un senso. Vladikavkaz. Vladivostok. Guardavo questi luoghi su quell’incredibile mappa e sapevo che dovevo andarci. Mi sono spesso chiesto perché mi sono lasciato trasportare da quell’emozione per così tanto tempo, ma solo ora, troppo tardi, mi rendo conto che il mio tempo stava finendo. Continuavo a tornare in questo punto degli Urali, spinto da qualche forza, facendo la spola sui vagoni platskart verso la Siberia, per fermarmi a questo monumento, l’obelisco al confine tra Europa e Asia. Continuavo a voler stare lì, ogni volta che andavo verso est, in questo punto del bosco. Quasi come una premonizione. Avevo letto una storia (non mi importava nemmeno se fosse vera o no) in un libro di storia che mi aveva preso molto. Riguardava i decabristi, quegli ufficiali, esposti all’Europa e all’illuminismo, nel bagliore della guerra napoleonica, che insorsero a San Pietroburgo per ottenere qualcosa di simile a una monarchia costituzionale. E’ stato un momento in cui la Russia avrebbe potuto trasformarsi – chissà cosa sarebbe stata se ci fosse riuscita – ma naturalmente non lo fece. I decabristi furono esiliati, tanti di loro, con tutto quello che avevano da dare, in Siberia. Si erano fermati qui: vicino alla croce sul confine continentale a piangere. Sapendo che non avrebbero più rivisto l’Europa. 

 

Oggi si riesce  a malapena ad arrivarci. Gli amici prenotano voli per Tashkent. L’Fsb li sta interrogando alla frontiera. Altri sono in preda al panico; non ci sono quasi più voli: sono tutti prenotati, tutto è bloccato, le sanzioni hanno chiuso lo spazio aereo alleato in ogni direzione. E queste sono le stesse persone, la stessa generazione, che solo dieci anni fa marciava allegramente per Mosca, raccogliendo denaro e combattendo la corruzione, solo per sbattere la testa, proprio come avevano fatto i decabristi, quando questa protesta ha spaventato lui, quando ha fatto infuriare lui, quando lui si è rivelato non un patetico pagliaccio a torso nudo – era Gollum in tutti i meme – ma davvero una bestia. Quelle furono le proteste che misero tutto in moto: la libertà schiacciata, gli arresti, i giornalisti silenziati, fino ad arrivare a questo. 

 

Perché mi sono rifiutato di guardare questa cosa alla Galleria Tretyakov? L’intera storia russa è raccontata in ritratti di autocrati a grandezza naturale bordati d’oro: Da Nicola I a Iosif Stalin. Ognuno dice: c’è qualcosa di molto fragile ma anche di molto duraturo nella repressione in questo stato. Qualcosa di immortale nelle liste di “organi”, come si dice in russo: forze di sicurezza dai nomi mutevoli come Cheka, Nkvd, Kgb – che hanno sempre sostenuto questi tiranni, più o meno, da quando sono stati fondati, come gli Oprichniki di Ivan il Terribile, per questo compito. Uomini proprio come lui. 

I millennial erano i decabristi di Putin. Nel 2011, la  Mosca giovane fremeva di una  eccitazione vertiginosa: poteva accadere, stava accadendo. Questa generazione, se solo avesse twittato, se solo avesse scritto e postato abbastanza su Facebook,  avrebbe potuto rovesciare lui. La consapevolezza energica che la gioventù, la tecnologia, il mondo come era e stava diventando avrebbe semplicemente prevalso. Perché chi era lui in realtà? Solo un piccolo burocrate strabico in difficoltà. Alexei Navalny sembrava così giovane, era lontano dalla prigione, urlava alla grande protesta su Prospekt Sakharova, affiancato da celebrità liberali che gridavano: “Rossiya Budet Svobodna”, la Russia sarà libera. Io gli credevo. 

 

Qual è il futuro della Russia? Devo aver fatto la stessa domanda a tutti, a ogni esperto europeo, a ogni diplomatico occidentale con la faccia giallastra che ho incontrato a Mosca. Come se fosse l’unica che contava. Le risposte sono arrivate a centinaia e nessuna teoria, mi addolora dirlo, era così folle e oscura e pornografica come quella di adesso, in Ucraina. Sono stato sommerso da sciocchezze accademiche come “autoritarismo competitivo” o “istituzioni mimetiche”. Non hanno detto che Napoleone è sempre con noi, che in ogni generazione c’è un leader che ha preso un tale controllo sulla sua società, la cui mente è così concentrata sulla gloria, che deve invadere da qualche parte. Come se fosse un ruolo codificato nella specie umana in un modo che non capiremo mai. Invece, mi è stato detto che la Russia era un “Bric” o un “normale paese a medio reddito” e ora tutto ciò che vedo è l’assoluta povertà intellettuale di guardare le cose soltanto attraverso una serie di dati. Avremmo dovuto ascoltare l’unica cosa – nella lingua di Fyodor Dostoevsky – che la cultura russa ha sempre venerato come detentrice del dono della visione. Cioè al potere profetico dell’arte. Lo scrittore Vladimir Sorokin, con i suoi lunghi e fluenti capelli grigi, fu uno dei primi a “saperlo”. Fu svegliato una mattina per sentirsi dire che l’inquietante ma ancora un poco comico movimento giovanile di lui stava gettando i libri in un gabinetto gigante. Uno era stato piazzato proprio fuori dal Teatro Bolshoi. Poi iniziarono a molestarlo. Una strana donna si presentò a casa sua dicendo che aveva avuto l’ordine di montare alle sue finestre delle sbarre da prigione. Suonò il campanello e c’era un sacco con i suoi libri. Ognuno con il timbro: porno. Poi chiamò il procuratore. Avevano aperto un caso contro di lui, questo romanziere satirico, che aveva scritto scene strane e divertenti su un clone di Stalin che si scopava uno di Krushev, per pornografia. 

 

Poi qualcosa si impossessò di lui come una necessità di fuga. Salì in macchina, con sua moglie, e guidarono verso nord, fuori da Mosca, fuori dalla Russia, fino ad arrivare in Estonia, nei boschi. E poi scrisse. Era come in trance. Come se stesse vomitando bile. Aveva impiegato cinque anni per scrivere un romanzo e questo era arrivato in un mese. Pubblicato nel 2006. L’ho letto più o meno allora su uno di quei treni, La giornata di un Opricnik, quelle paludi e foreste, che mi passavano davanti di sfuggita: la mia mente vedeva per metà i carri armati che erano stati lì nel mondo della Seconda guerra tra le betulle. In questo libro, lo Zar è stato restaurato. Il paese è murato dietro una Grande Muraglia russa, dalla quale spuntano soltanto gli oleodotti. E’ l’ora di questo Opritchnik dei giorni nostri: questo furioso agente al lavoro uccide un boiardo, stupra in gruppo sua moglie, poi va a trovare un chiaroveggente in nome dello Zar. Un giorno del 2028. Ma è un falso impero: totalmente dipendente dalla Cina. I loro personaggi si sono insinuati in ogni cosa e persino la zarina fa in modo che suo figlio studi in mandarino. 

Ho appoggiato questo libro quando l’ho finito, ma non mi ha mai lasciato. Non mi ha lasciato la sensazione di aver visto il futuro. E ora  – i  pezzi cadono ora dopo ora – tutti quelli che conosco a Mosca ci vivono. E non so per quanto tempo.


Ben Judah è un giornalista e scrittore britannico, fellow all’Atlantic Council, autore di “This is London” e “Fragile Empire”.  Copyright unherd.com
(Traduzione di Priscilla Ruggiero)

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