Le bombe russe sfasciano la memoria e i cimeli delle famiglie ucraine
"Le nostre nonne hanno vissuto due guerre mondiali, l’Holodomor e l’Olocausto, l’espropriazione e la deportazione: non avevano nulla da tramandare. Ora Putin distrugge ciò che la mia generazione aveva ereditato per la prima volta in cento anni", dice la direttrice del più grande centro culturale dell’Ucraina
Più di cento anni fa, Rainer Maria Rilke scrisse nel suo romanzo “I quaderni di Malte Laurids Brigge” che per costruire le nostre radici abbiamo bisogno dei cimeli e dei ricordi di famiglia: la casa, i mobili, i libri e tutto ciò che le nostre famiglie possiedono negli anni. Queste cose danno al mondo che ci circonda – e a noi in quel mondo – una base solida, ci garantiscono certi poteri, danno significato alla nostra esistenza. Quei vecchi muri, gli armadi scuri, i quadri in cornici mangiate dai vermi e le fotografie gialle tramandate di generazione in generazione creano una continuità di cui abbiamo bisogno soprattutto nei momenti di crisi. Mezzo secolo dopo, Milan Kundera ha descritto una sensazione simile ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: estromessa da ciò che prima era stabile, una persona diventa molto simile a un palloncino che vola via senza peso, stordita dall’insignificanza della sua vita.
O prendete “Dietro le quinte del museo” di Kate Atkinson. Ho finito di leggerlo pochi giorni prima del devastante, osceno attacco della Russia all’Ucraina nella notte del 23 febbraio – appena prima che iniziassero le atrocità russe nelle città ucraine. Nel romanzo della Atkinson, l’intera trama ruota intorno a una vecchia fotografia di una donna di nome Alice. Pagina dopo pagina, veniamo a conoscenza della vita dei discendenti di Alice, ognuno dei quali ha conservato una delle sue foto. Si tratta del legame tra il destino e le cose, un legame che ci dà il nostro senso di continuità.
Sto scrivendo questi miei pensieri a Kyiv, ma non posso accedere alla mia libreria, e quindi non posso cercare citazioni o controllare i dettagli: devo fare affidamento solo sulla mia memoria. Mentre sono qui, posso vedere in tempo reale – grazie alla tecnologia moderna – i russi che bombardano il mio quartiere in periferia, che fanno saltare in aria luoghi che conosco, i loro razzi che distruggono complessi architettonici che sono sopravvissuti anche alla Seconda guerra mondiale. E mi viene in mente un’altra cosa.
Il caldo giugno del 2021 a Kyiv. L’Arsenale dell’arte, il più grande centro culturale dell’Ucraina dove lavoro, organizza un festival chiamato “Arsenale del libro”. Decine di migliaia di persone in giro, migliaia e migliaia di libri, centinaia di eventi, battute sulla “nostra Woodstock letteraria” dei miei amici scrittori, concerti serali nel cuore della città vecchia, abbracci ovunque. Sto partecipando a una tavola rotonda sulla carità e la cultura. Improvvisamente mi viene in mente che la mia generazione, gli ultraquarantenni, è la prima generazione di ucraini ad aver ereditato qualche tipo di bene materiale. Le nostre nonne hanno vissuto due guerre mondiali, l’Holodomor e l’Olocausto, l’espropriazione e la deportazione in Siberia: non avevano nulla da tramandare. Hanno solo perso, ancora e ancora. Nella mia famiglia, per esempio, i miei nonni contadini avevano ereditato della terra dai loro genitor, che era la risorsa più preziosa. Gliela tolsero e mia madre a volte ricordava che suo padre le aveva detto: “Non posso darti nulla, quindi devi studiare e provvedere a te stessa”. I nostri genitori raccolsero i loro averi e racimolarono di che vivere dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Le città dell’Ucraina erano in rovina, gli edifici distrutti, e i mobili antichi, le porcellane, i quadri e persino le fotografie – tutto ciò che viene tramandato da una generazione all’altra – erano andati perduti. Ecco perché solo la mia generazione ha ereditato qualcosa – o almeno avrebbe dovuto farlo – dalle proprie famiglie, anche se non era altro che un vecchio appartamento sovietico, un minuscolo appezzamento di dacia, una collezione di libri o un polveroso tavolo di vetro scheggiato. Qualunque cosa fosse, eravamo i primi a ereditarlo dopo molto, molto tempo.
Oppure prendiamo i musei e gli archivi ucraini. All’inizio del XX secolo, gli oggetti più preziosi sono stati portati a Mosca e San Pietroburgo. Credo che anche gli archivi della Repubblica nazionale ucraina siano ancora lì. Le opere di artisti eccezionali, come gli affreschi del brillante modernista Mykhailo Boychuk, furono definite in contrasto con l’ideologia sovietica, e distrutte. Gli artisti furono fucilati, giustiziati. Durante la Seconda guerra mondiale, molte collezioni museali ucraine lasciarono il paese assieme ai tedeschi; molte altre andarono perse nei bombardamenti. Un esempio eloquente: pochi giorni prima dell’invasione russa noi dell’Arsenale dell’arte chiudemmo una mostra intitolata “Futuromarennia”, un ampio panorama del futurismo ucraino con dipinti, arti grafiche, ricami, cinema, opere letterarie, costumi teatrali, oggetti di scena ricostruiti. Progettarlo ha richiesto uno sforzo enorme: il materiale sopravvissuto era scarso. Ora tutte quelle opere sono di nuovo in pericolo. Tutto ciò che era stato rintracciato, conservato, presentato al pubblico e accolto come nostro patrimonio per le prossime generazioni viene distrutto dai russi.
L’artiglieria e gli aerei russi stanno bombardando le nostre città. Per esempio, l’insieme di architettura costruttivista degli anni Venti nel cuore di Kharkiv viene ripetutamente colpito da razzi. Distruggono tutto ciò che, come pensavo durante la tavola rotonda dell’estate scorsa, la mia generazione ha finalmente ereditato per la prima volta in cento anni. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’insopportabile leggerezza dell’essere, alla mancanza delle cose che, secondo Rilke, ti danno il senso della terra sotto i piedi. Non solo la bella architettura e le opere d’arte dei musei, ma anche qualcosa di semplice come l’appartamento dei tuoi genitori in quel vecchio edificio a nove piani dell’èra sovietica. Ancora una volta, siamo a tu per tu con il vuoto.
Olesia Ostrovska-Liuta, direttrice dell’Arsenale dell’arte a Kyiv