La morte è ovunque
“Mai più” non vuol dire più niente, dice Zelensky. Lo sfacelo di Mariupol e l'obbligo umanitario
Quando c’è un obbligo morale, per ragioni umanitarie, di intervenire in un conflitto? E quali sono i fattori che contribuiscono a fare questa scelta?
“La morte è ovunque” hanno scritto i giornalisti dell’Associated Press entrati a Mariupol, descrivendo i corpi accatastati, soprattutto di donne e di bambini e raccontando in un diario giornaliero la catastrofe umanitaria di questa città che, “se la geografia definisce il destino dei posti, era sulla via del successo, con i suoi palazzi di ferro e vetro, un porto florido e una grande domanda per entrambi”. Il vicesindaco di Mariupol ha detto ieri che l’80-90 per cento dei palazzi è distrutto, non c’è elettricità, i russi dicevano che avrebbero portato il cibo ma non l’hanno fatto, l’acqua è quasi finita, i sopravvissuti sciolgono la neve e la bevono. Ci sono almeno 2.500 morti, ma la stima è al ribasso, non c’è modo di contarsi, i cadaveri quando possibile vengono messi nelle carriole e portati via, dove “via” è ogni angolo. L’ospedale pediatrico e il teatro-rifugio sono stati bombardati, l’unico ospedale funzionante della città ha nel seminterrato l’obitorio improvvisato con i cadaveri per terra.
Volodymyr Zelensky è intervenuto al Parlamento tedesco e ha detto: “Ogni anno ripetete in Germania: mai più. Mai più oggi non vuol dire niente”. “Mai più” è riferito alla Shoah, ma dalla Seconda guerra mondiale in poi è diventato lo slogan dell’obbligo morale dell’occidente di impedire e prevenire genocidi e catastrofi umanitarie: negli anni Novanta, dopo il genocidio in Ruanda, divenne il simbolo della dottrina dell’interventismo umanitario di stampo clintonian-blairiano. Charles Blow, opinionista del New York Times, ricorda un paper pubblicato nel 1997 sul Journal of Humanitarian Assistance: “Pur non avendo fatto nulla riguardo al genocidio, il governo americano ha dato un contributo generoso in termini di fondi, 370 milioni di dollari nel 1994”. Nel 2009, il Christian Science Monitor intervistò un esperto del servizio di ricerca del Congresso che disse: “Se c’è una lezione imparata in Ruanda è che la comunità internazionale deve evitare di dare l’impressione di avere la volontà o la capacità di salvare i civili durante un conflitto. E’ importante che le persone costruiscano questa capacità da sole, non dobbiamo fornire l’aspettativa che le persone saranno salvate da altri”. Non era vero, ci sarebbe stato in seguito il Kosovo con l’intervento della Nato, il che porta Blow a chiedere: quando c’è allora un obbligo morale, per ragioni umanitarie, di intervenire in un conflitto? E quali sono i fattori che contribuiscono a fare questa scelta? “A volte la sofferenza umana si sovrappone agli interessi nazionali e altre volte no, ma il nostro senso morale deve rimanere costante”, conclude Blow.
Gli Stati Uniti stanno fornendo armi e fondi all’Ucraina, le sanzioni occidentali sono senza precedenti, ma gli appelli di Zelensky sono morali e valoriali, e noi (i tedeschi nella fattispecie, ma ci riguarda tutti) rispondiamo con, dice il presidente ucraino, “l’economia, l’economia, l’economia”.
Samantha Power, che oggi dirige l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, registra ogni aiuto umanitario in arrivo in Ucraina. Due giorni fa ha detto che dal 24 febbraio è scappato un bambino ucraino ogni secondo. In un’intervista ieri ha detto riferendosi alla guerra di Putin: “Se colpisci intenzionalmente i civili, compi un crimine di guerra. E’ la cosa più brutale che abbia mai visto nella mia vita”. La Power è la testimonial occidentale del “mai più” di questo secolo.