Un rifugio che è ancora casa
C’è un posto dove chi scappa dalla guerra in Ucraina riesce ad avere un po’ di tregua: i Carpazi. Gli ucraini guidano verso le montagne con gli occhi chiusi poi qui ritrovano il sapore del latte caldo. E dicono: la vita può continuare
Non c’è quasi nessun posto in Ucraina in cui ci si senta veramente sicuro. Non i rifugi sotterranei. Non le città lontane dai bombardamenti quotidiani. Ovviamente non le basi militari. Nemmeno la casa di un parente. In questi giorni l’unico posto di vera pace e rifugio in questo paese è quello costruito dalla natura – le alte colline dei Carpazi orientali, fitte di fili di abeti bianchi spolverati di neve fresca, punteggiate di villaggi che stanno diventando sempre più grandi perché decine di migliaia di persone stanno fuggendo qui. “Non appena siamo entrati nelle montagne ci siamo sentiti al sicuro”, ha detto Miroslava Patsyadi, una giovane madre e bibliotecaria della città di Bila Tserkva, a sud di Kyiv, pesantemente bombardata. “E’ una cosa inconscia. Mia figlia può dormire di nuovo. Qui ci siamo resi conto che la vita continuerà”.
A differenza dei milioni di persone che sono fuggite nelle città dell’Ucraina occidentale, dove le notti sono ancora interrotte da ore di sirene di raid aerei, e dove la calca di nuove persone è un costante ricordo della spietata distruzione che si sono lasciati alle spalle, coloro che sono fuggiti nei Carpazi hanno descritto un senso di protezione più genuina. “Da quando è iniziata la guerra, ho dormito con le scarpe e la giacca addosso perché avremmo potuto aver bisogno di correre da un momento all’altro”, ha detto Hanna Melnyk, 69 anni, che è fuggita di città in città prima di arrivare qui. “Ieri sera ho indossato il pigiama. Non avrei mai pensato che mettere il pigiama mi avrebbe fatto piangere di felicità”.
Seicento nuovi arrivati ora dormono tranquillamente nel villaggio di Kryvorivnya, che normalmente ha circa 1.300 residenti. All’alba la gente del posto pescava le trote nel fiume Cheremosh. Cavalli arruffati trainavano carretti di legno. I ghiaccioli gocciolavano al sole. Le campane che annunciavano la messa suonavano da una chiesa di 360 anni. I Carpazi hanno nascosto e ospitato gente per secoli. Ebrei in fuga dai pogrom. Ucraini in fuga dall’Armata Rossa di Stalin. Gli abitanti di questo posto discendono dalle ondate precedenti. “Ogni mattina, il nostro vicino ci porta il latte bollito. Ecco il tipo di persone che vivono qui”, ha detto Volodymyr Hramov, 60 anni, cognato di Melnyk.
L’ambiente placido è quasi inconciliabile con l’inferno che Hramov ha attraversato per arrivare qui. In una postazione militare russa sul confine occidentale di Kiev la scorsa settimana, ha detto di aver visto i soldati sparare proiettili su una macchina che trasportava una famiglia dal suo condominio. Ha detto che due bambini sono stati colpiti e feriti, e che la loro madre è stata uccisa. Più avanti, nel territorio controllato dall’Ucraina, ha detto che i cadaveri dei soldati giacevano insepolti lungo il lato della strada. Gli aerei da combattimento sono scesi in picchiata a bassa quota. I proiettili sfrecciavano. Gli edifici bruciavano. “Abbiamo guidato verso le montagne con gli occhi chiusi per metà del tragitto”, ha detto.
La maggior parte delle persone che arrivano qui sulle colline ha lasciato tutto. Quelli che non possono pagare rimangono e mangiano gratis. Contribuiscono allo sforzo bellico locale – cucendo reti mimetiche per i posti di blocco, preparando molotov, bollendo pentole di gnocchi di patate da mandare al fronte. Patsyadi e suo marito avevano appena comprato una nuova casa a Bila Tserkva. Ora usano un’app con un sensore di movimento sui loro telefoni per guardare ogni volta che una granata colpisce nelle vicinanze e la casa trema. Un giorno verrà distrutta, pensa. Questo le dà la motivazione per fare quella molotov in più. Anche se le colline sono un rifugio, nessuno finge che non ci sia una guerra. Tutta la regione è in allerta. L’amministrazione civile è stata trasformata in una militare, e Vasyl Brovchuk, un tempo il massimo burocrate qui, ora indossa l’uniforme. “La gente che viene qui ha visto cose orribili”, ha detto nel suo ufficio, ora rinforzato con pile di sacchi di sabbia. “Abbiamo persone che alloggiano in scuole, rifugi, case private, edifici governativi. Speriamo che possano avere un po’ di tregua”.
La tregua sabato scorso è stata una tazza di tè e una torta al cioccolato per Viktoria Hlazova, 80 anni, nota nella scena cinematografica di Kyiv come produttrice di 28 film che abbracciano l’èra sovietica e indipendente dell’Ucraina. Era venuta a Kryvorivyna anni fa per girare un film. Invece, ha detto di aver trovato Dio. Ivan Rybaruk, il prete del villaggio, l’ha battezzata. Scelse il suo autista come padrino, nonostante fosse molto più giovane di lei. La vita a Kyiv era diventata più difficile prima della guerra, però. La vecchiaia e le malattie hanno reclamato gli amici. Ha avuto un ictus, che le ha reso difficile camminare e parlare. Poi la Russia ha invaso l’Ucraina orientale nel 2014, e i russofoni come lei hanno provato vergogna. Stava per terminare il suo 29esimo film, un documentario su uno psicologo che lavora nell’Ucraina orientale, il mese scorso. Ma insieme ai residenti di 56 dei 60 appartamenti del suo palazzo a Kyiv, è fuggita alla stazione ferroviaria. Ci sono voluti molti giorni – non ricordava quanti – ma è riuscita a raggiungere la città occidentale di Ivano-Frankivsk, dove il suo padrino la stava aspettando. “Non si è dimenticato di me”, ha detto, soffocando. “Qui è dove ho trovato la fede ed è dove sono venuta ora a cercare la protezione di Dio”.
Forse non tornerà mai a casa, lo sa. Ma almeno è ancora in Ucraina. Ha dato conforto anche a Hramov, che pur essendo fuggito, non ha abbandonato il suo paese. A 60 anni, ha appena superato la soglia della coscrizione. Ma una volta era un uomo dell’esercito, e proviene da una lunga stirpe di ribelli contro l’imperialismo russo. Suo padre e suo nonno hanno entrambi trascorso decenni nei gulag e nelle prigioni sovietiche come cosiddetti nemici dello stato. E’ orgoglioso dell’indipendenza ucraina: è per questo che sa come maneggiare un fucile kalashnikov per difenderla. Se e quando sarà il momento, lascerà Melnyk, sua cognata, sulle montagne con le donne e i bambini delle loro famiglie e tornerà al fronte. “Non me ne andrò, non posso andarmene”, ha detto. “Possono dire che non sono più in grado. Io sono capace. Ho vissuto nella ricchezza e vivrò nella povertà. Ho vissuto nella pace e vivrò nella guerra. La vita non si fermerà”.
(Copyright Washington Post)
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