(foto Ap)

Storie da Varsavia, dove si fa di tutto per accogliere gli ucraini

Francesco M. Cataluccio

A cena coi profughi non ci sono i popoli, “ci sono gli umani e i disumani”, ci dice una di loro

La stazione centrale di Varsavia, dove i treni e gli autocarri scaricano in continuazione ucraine e bambini che fuggono dalla guerra, è una bolgia infernale. I treni però oggi funzionano a singhiozzo perché è saltato il sistema informatico che regola il traffico ferroviario (si parla di un attacco hacker russo). Una massa di centinaia di persone silenziosa crea un’atmosfera quasi surreale. Come uccelli in gabbia svolazzano da una parte all’altra dell’enorme salone, trascinando le poche borse e valigie che sono riuscite a portarsi dietro. Passano da un tavolo per le informazioni alla fila per gli acquartieramenti alle tende dei pompieri dove vengono distribuiti panini e acqua. Ci sono tantissimi volontari polacchi con pettorine giallo canarino che si danno un gran daffare. La figlia liceale di un mio amico si è posta il problema di cosa potessero mangiare gli eventuali vegani. Così, con le compagne di scuola, ha organizzato un elegante tavolo, con panini buonissimi, che pare sia molto apprezzato anche dagli ebrei ortodossi. 

 

Sotto le grandi scale che portano al parterre stanno rifugiate, nella semioscurità, le donne con le carrozzine e i neonati. Là sono state sistemate le tende con i pediatri, le infermiere e i tavoli per la distribuzione di pannolini e altri generi di prima necessità. I  bambini appena più grandi sono disciplinatissimi: stanno attaccati alle mamme, non piangono e non gridano, non si rincorrono (i più attrezzati giocano con i cellulari combattendo cruente battaglie contro mostriciattoli guizzanti e imprendibili). Si vedono quasi soltanto donne e bambini: il governo ha fatto sapere che, mercoledì, i profughi in Polonia hanno raggiunto la cifra di 2 milioni. I vecchi hanno preferito in genere rimanere a casa e non affrontare un viaggio disagevole e dall’esito ignoto. Gli uomini sono tutti in Ucraina a combattere. Per molte è la prima volta che vanno all’estero e non avevano mai visitato Varsavia. Escono all’aria aperta e guardano col naso all’insù il grappolo di moderni grattacieli che circondano e stemperano lo staliniano Palazzo della cultura. Qualcuna si fa un selfie con i figli. Due ragazze di Leopoli, studentesse universitarie di lontane origini polacche, mi spiegano che nessuna di quelle persone vuole rimanere all’estero. Trattano questo viaggio come un temporaneo mettersi in salvo dalle bombe. Ma non appena la situazione si normalizzerà (loro usano diverse volte l’espressione “vinceremo”) torneranno a casa e “anche se la casa non ci sarà più”, mi dice piangendo una signora di Odessa, “la ricostruiremo”. 

 

A un certo punto appare un enorme fagiolo di plastica gialla che fende la folla: è il cappello di reclamista di un baretto che vende ravioli (“pierogi”) a poco prezzo. Non tutte le ucraine sono senza soldi e disorientate. Anche molto lontano dalla stazione, si trovano esuli con i loro variopinti trolley che fanno piccoli acquisti o mangiano in più comode locande. Anche il piccolo albergo del centro dove abito è tutto occupato da ucraini. Non essendoci turisti in città, il simpatico proprietario-filosofo ha dato loro tutte le stanze gratuitamente e garantito due pasti caldi. Ma, venutolo a sapere, si è attivata spontaneamente una catena di solidarietà con persone che pagano il soggiorno agli esuli. Il figlio del pianista Szpilman, sopravvissuto all’Olocausto (protagonista del film “il Pianista” di Roman Polanski), che abita da anni a Kyoto e insegna storia del Giappone all’università, ha telefonato e garantito tre mesi di soggiorno agli abitanti di due stanze; così ha fatto il proprietario della principale pasticceria di Varsavia (che ogni anno mandava in aereo i suoi buonissimi krapfen al goloso generale De Gaulle, in ricordo del suo aiuto come addetto militare francese a Varsavia, nella guerra russo-polacca del 1920); e così anche hanno pagato alcuni mesi a degli sconosciuti ucraini, una coppia di avvocati neozelandesi venuti in visita a Varsavia, rimasti bloccati per quasi due anni fuori dal proprio paese che aveva chiuso le frontiere per il Covid: hanno scritto che, dopo quello che hanno passato, si sentono solidali con chi perde la patria  e riconoscenti con chi li ospitò senza fare tante storie.

A cena mi sono trovato al tavolo con due signore di Kharkiv dai tratti marcatamente orientali: una pittrice, che ha un figlio promettente stella del balletto a New York, e la sorella regista di performance teatrali che erano malviste dai filorussi. Hanno viaggiato con l’anziano e malmesso padre, ex ingegnere meccanico ed ex pugile, per tre giorni, cambiando spesso autobus. In tre, una valigia soltanto, per non rischiare fosse loro impedito di far montare a bordo anche i due trasportini con i loro gatti: “Sono di famiglia, non potevamo lasciarli laggiù!”. Parliamo un po’ in polacco, un po’ in ucraino e un po’ in russo. Non ce l’hanno con i russi. La pittrice dice che non esistono i popoli, ma soltanto due categorie di persone: “Gli umani e i disumani”. Anche loro, appena finirà l’invasione, vogliono tornare a Kharkiv anche se è quasi completamente distrutta. Di andare a New York dal figlio non se ne parla proprio: “I gatti e il papà non lo sopporterebbero”. A momenti, senza che ciò abbia una qualche relazione con quello che stanno dicendo, si mettono sommessamente a piangere. Parlano, come un fiume in piena, soprattutto di ricordi (le battaglie per l’indipendenza; certi film ucraini; una gita a Venezia di due giorni…). Per l’imbarazzo mi metto a parlare col silenzioso padre e gli chiedo come mai la sua patria abbia un nome così strano e instabile : U Krajna (al limite, al confine). Anche lui conviene che sarebbe stato meglio, come certe nazioni africane, cambiare quel nome, perché porta disgrazie. Ma poi ha quasi un tremito, come si fosse pentito di quello che mi ha appena detto. Fissando il fondo della scodella con i resti della zuppa di piselli secchi (che qui chiamano “zuppa militare”), mi dice: “Troppi sono morti per quel nome, non si può cambiarlo”. 

 

Nel cortile incontro una corpulenta pianista di Kyiv, in tuta da ginnastica bianca, che sta cercando un mezzo per andare a Vilnius dove il figlio studia informatica: “Ha un piccolo monolocale, per qualche tempo ci stringeremo e il Conservatorio locale mi ha garantito di potermi esercitare ogni pomeriggio”. Con lei c’è l’unica altra non ucraina, oltre a me e al padrone di questo bizzarro albergo-arca di Noè (perché anche le inservienti e i cuochi sono, da diversi anni, tutti ucraini, con laurea): una giovane e irrequieta giapponese che lavorava nella filiale della Toshiba di Kyiv e ha perso il lavoro da un giorno all’altro. Domani tornerà nella sua Hokkaido. Il trauma della guerra l’ha convinta a cambiare vita. Riprenderà a suonare il flauto. Mentre lo dice, con una tovaglietta piega meccanicamente un complicato origami: una specie di uccello dalle piccole ali col becco ricurvo. Poi lo appende all’albero di melo che sta già germogliando.

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