Come cambiano i repubblicani americani: la guerra (culturale) tra Ron DeSantis e Disney
La Florida è uno stato da sempre in grande sintonia con la Disney. Ora il governatore repubblicano, che prova a superare Trump a destra, si mette di traverso e mostra che la guerra alla wokeness è più importante del principio sacro dei conservatori: il business non si tocca
C’è stato un tempo in cui uno dei motti del Partito repubblicano era: “Lasciate che le imprese vengano gestite come desiderano”. Adesso invece spesso entrano in rotta di collisione per le guerre culturali. Specialmente con quelle grandi che un tempo fornivano finanziamenti ma non solo: a volte fornivano competenze. Un caso per tutti: la formazione politica e comunicativa di Ronald Reagan non avvenne con una piccola carica elettiva locale, ma fu nel periodo in cui ricoprì la carica di portavoce della General Electric, un’azienda che ebbe per molto tempo un rapporto di stretta vicinanza coi repubblicani. Così era anche per la Disney, non solo nella California che elesse governatore Ronald Reagan negli anni Sessanta. Lo era anche in Florida, fino a qualche anno fa.
Poi è arrivato un repubblicano diverso, il governatore Ron DeSantis. Ex deputato del Freedom Caucus ed ex favorito di Donald Trump, che gli aveva dato un endorsement nel 2018 dopo averlo visto in uno spot televisivo in Florida, ultimamente ha raffreddato i rapporti con l’ex presidente a causa delle ambizioni in conflitto. L’ha superato a destra, diventando più interessato alle polemiche da social che al governo dello stato. Paladino della lotta contro la wokeness nelle università, ha proibito l’insegnamento della Critical Race Theory nelle scuole, ha vietato qualsiasi obbligo di mascherina ovunque, bullizzando alcuni studenti che la usavano durante una visita a un plesso scolastico e ha sponsorizzato i libri che nelle biblioteche scolastiche parlano di temi “controversi” come l’identità di genere o l’aborto. A inizio marzo il Parlamento ha innalzato ulteriormente il livello dello scontro: ha approvato la creazione di una polizia che “indaghi sulle frodi elettorali” e due provvedimenti che riguardano la scuola e l’istruzione in generale: il primo, definito “Don’t say gay”, proibisce la discussione alle scuole elementari di temi riguardanti la sessualità e il secondo “Stop Woke Act” proibisce qualsiasi discussione anche sul luogo di lavoro di temi “controversi”.
Cosa c’entra la Disney? Come dicevamo, c’è stato a lungo un rapporto di grande sintonia: la Disney ha ricevuto dai vari governatori del Gop incentivi e sgravi fiscali tanto che anche quest’anno duemila posti di lavoro verranno spostati dalla California alla Florida per questa ragione. Come avrebbe detto Reagan, la California è uno stato “socialista”, ormai. Anche il governatore DeSantis però ha voluto mettere becco nella gestione di un’impresa come la Disney che nell’area di Orlando impiega nelle sue varie strutture circa 57 mila persone, il datore di lavoro maggiore dello stato. Il problema, diciamo così, è che l’azienda, spinta dalle famiglie Lgbtq, ha deciso di protestare contro la legge togliendo i finanziamenti ai politici repubblicani. Come ha risposto il team di DeSantis? Ovviamente con accese polemiche social.
Tutto è cominciato per il programma aziendale d’inclusione: il deputato statale repubblicano Bryan Avila ricevette una soffiata sul fatto che si sarebbe citata l’espressione “razzismo sistemico”. Apriti cielo: scriviamo subito una legge, la futura “Stop Woke Act”. I repubblicani di certo non si aspettavano una tale alzata di scudi: è grazie a loro che in Florida non c’è una legge per la malattia pagata per i dipendenti e sono proprio loro i destinatari principali delle donazioni politiche della Disney. Nonostante un acceso editoriale sull’Orlando Sentinel, mettendo in luce questa ipocrisia lampante, abbia invitato la Disney a fare ricorso in tribunale, dove ci sono buone possibilità che queste leggi finiscano cestinate. Probabilmente non lo farà. Toccherà a qualche altra associazione per le libertà civili come l’American Civil Liberties Union.
Da questa vicenda emergono due fattori importanti: da una parte DeSantis dimostra che la sua ambizione non si ferma davanti a nulla, nemmeno di fronte alla violazione di un principio quasi sacrale per il conservatorismo americano, ovvero il business è mio e lo gestisco io. Dall’altra tutto l’impegno mediatico delle grandi corporation a favore dell’inclusività svanisce quando si guarda chi riceve le loro donazioni: banalmente, chi fa pagare meno tasse.