l'analisi
Cos'è la “finlandizzazione” dell'Ucraina
La neutralità della Finlandia nel Dopoguerra non è stata un pranzo di gala. Appunti per Kyiv
L’argomento principe addotto da chi spiega l’aggressione all’Ucraina quale conseguenza dell’espansione a est della Nato è l’aumento della percezione d’insicurezza che l’allargamento avrebbe prodotto a Mosca. Che la Russia soffra, e non certo dalla fine della guerra fredda, di un complesso di accerchiamento è cosa fin troppo nota e dibattuta. I geopolitici, quelli veri, sostengono da sempre che un simile senso d’insicurezza è tipico delle potenze continentali, alle quali manca la naturale protezione offerta dal mare. Le sconfinate pianure della steppa prive di difese naturali e l’esperienza storica, le aggressioni subite da Russia prima e Unione Sovietica poi, sono origini credibili di questa percezione. E’ curioso, tuttavia, che coloro che tanto se ne preoccupano non prestino altrettanta attenzione alla percezione d’insicurezza dei paesi ben più piccoli e deboli che con la Russia confinano: i tre stati Baltici, privi di profondità strategica, la Polonia o la Finlandia. Da tempo quest’ultima è però assurta a inattesa notorietà nelle analisi sul conflitto in Ucraina. Scopo ultimo della guerra in atto è infatti, nelle parole stesse di Putin, l’impegno formale da parte di Kyiv a non aderire in futuro alla Nato e all’Ue.
In Occidente a questo eventuale status si è fatto spesso riferimento recuperando un termine caro al dibattito politico e accademico degli anni della guerra fredda: “Finlandizzazione”. Di volta in volta deprecandone le implicazioni o sottolineandone i meriti. Al termine sono infatti attribuite due accezioni opposte. Per finlandizzazione s’intende la peculiare condizione assunta dalla Finlandia nel rapporto con l’Urss dopo la fine della Seconda guerra mondiale e durante la Guerra fredda. In quegli anni nei paesi occidentali il termine fu spesso impiegato quale sinonimo di dipendenza, sostanziale limitazione della sovranità nazionale, vassallaggio. Alla Finlandia veniva imputata, spesso impietosamente, una condotta ambigua sulla scena internazionale dovuta all’intimidazione sovietica, tacita o esplicita. Veniva sottolineato che al paese era vietato schierarsi nel campo occidentale e che doveva rinunciare a qualsiasi critica su ogni argomento che toccasse l’Unione sovietica. Nell’immediato post-guerra fredda, al contrario, al “modello finlandese” si guardò da più parti come ad un possibile positivo riferimento nel processo di costruzione delle relazioni tra la Federazione Russa e alcuni degli stati appena usciti dalla disgregazione dell’Urss. Il modello offrirebbe il vantaggio di assicurare al partner minore della relazione un sufficiente grado d’indipendenza politica, di autonomia, senza che ciò rappresenti una minaccia per la sicurezza del maggiore. Applicato al caso ucraino rappresenterebbe dunque un modo bilanciato di risolvere il dilemma tra sufficiente autonomia ucraina e sicurezza russa.
L’introduzione del termine “finlandizzazione” è fatta risalire al politologo tedesco Richard Löwenthal, quale portato della crisi del muro di Berlino del 1961. Il libro dell’allora ministro degli esteri austriaco Karl Gruber, Zwischen Befreiung und Freiheit, pubblicato nel 1953, metteva tuttavia già in guardia rispetto al pericolo della “Finnische Politik”. Nel dibattito sull’indirizzo della politica estera una volta superato il regime di occupazione quadripartita, Gruber sosteneva che lo status di neutralità avrebbe potuto lasciare l’Austria esposta alle pressioni e intimidazioni dell’Urss. A partire dagli anni Sessanta e soprattutto nel decennio successivo fu proprio in quest’accezione che il concetto venne utilizzato nell’ambito della Nato. Un rischio analogo, si sosteneva, lo correvano altri paesi europei, anche in considerazione della crescita dei rispettivi partiti comunisti nazionali.
Finita la guerra fredda la possibilità di applicare l’opzione finlandese alla crisi ucraina fu suggerita per la prima volta sul Financial Times del 23 febbraio 2014 da Zbigniew Brzezinski, politologo già consigliere alla sicurezza nazionale nell’amministrazione Carter. L’articolo uscì il giorno successivo alla fine di Euromaidan, col presidente Janukovyc in fuga e a pochi giorni dall’inizio dell’occupazione della Crimea. Brzezinski suggeriva di rispondere alla coercizione russa applicando il modello finlandese sia al caso dell’Ucraina, garantendone indipendenza e integrità territoriale in cambio della rinuncia all’ingresso nella Nato, sia nella costruzione un nuovo sistema di relazioni est-ovest. In un articolo pubblicato sul Washington Post il successivo 5 marzo Henry Kissinger si collocò sulla stessa linea, sostenendo che l’adesione all’Ue avrebbe potuto essere una valida contropartita della rinuncia all’ingresso nella Nato. Per sopravvivere all’Ucraina non restava altra possibilità che farsi “ponte” tra Russia e Occidente. Ai due autorevoli articoli rispose Jaakko Iloniemi, già ambasciatore finlandese negli Stati Uniti, sul Financial Times del 10 marzo. Il diplomatico sottolineava, correttamente, quanto fosse improprio applicare un modello prodotto dalla storia e dalla cultura politica finlandese nella relazione col grande vicino a un contesto così diverso. Era il medesimo genere di critica che negli anni, e non senza fastidio, accademici e politici finlandesi hanno rivolto al concetto di finlandizzazione.
Nella sua storia la Finlandia ha sempre dovuto agire entro un triangolo di potenze: Russia, Svezia e Germania. Ognuna di esse ha dato un contributo alla cultura finlandese. Ognuna ha rappresentato un possibile alleato e/o una fonte di minaccia. La rivoluzione bolscevica creò le condizioni propizie alla dichiarazione d’indipendenza del granducato, il 6 dicembre 1917. All’inizio del 1918 la frattura tra borghesia, i cui riferimenti politici e culturali restavano Svezia e Germania, e socialisti massimalisti, attratti dalla rivoluzione russa, sfociò in guerra civile. In primavera la Guardia Bianca prevalse su quella Rossa, grazie al generale Gustaf Mannerheim, già luogotenente generale zarista, poi Feldmaresciallo di Finlandia nella Seconda guerra mondiale e infine presidente della repubblica (1944-46). Nel 1932 venne firmato un Patto di non aggressione con l’Unione sovietica che tuttavia, il 29 novembre 1939, viste rigettate le dure richieste presentate a Helsinki, attaccò in forze il piccolo paese che aveva allora solo tre milioni di abitanti. E’ l’inizio della Talvisota, la “Guerra d’inverno”, che diverrà parte dell’epica nazionale. Nonostante l’enorme superiorità sovietica in uomini e mezzi, la Finlandia resistette da sola per tre mesi, infliggendo pesanti perdite ai russi. Fu infine costretta alla resa all’inizio del marzo 1940 e dovette cedere l’istmo di Carelia con la città di Viipuri (Viborg), la base navale di Hanko e Petsamo, con lo sbocco al Mare di Barents. Nella “guerra di continuazione” (fine giugno 1941-19 settembre 1944) i finlandesi, alleatisi con i tedeschi, si batterono per riconquistare i territori perduti. La richiesta di Hitler affinché partecipassero all’assedio di Leningrado fu però respinta. Mannerheim, è significativo annotarlo, non intendeva accodarsi all’alleato, inasprendo il confronto con i russi. Voltesi le sorti della guerra contro la Germania, Mannerheim, divenuto presidente nell’agosto 1944, sganciò il paese dall’alleato tedesco firmando a novembre l’armistizio. Le forze finlandesi continuarono a combattere, ma contro i tedeschi, per espellerli dalla Lapponia. Era la prima traduzione in pratica del nuovo indirizzo di politica estera sostenuto dal ministro dell’Interno Urho Kekkonen, la “Linea Paasikivi-Kekkonen”, che prevedeva la definitiva rinuncia al recupero dei territori perduti nel 1940 e una détente con l’Unione sovietica. Nel dopoguerra Kekkonen diverrà uno storico e amato presidente, rimasto in carica dal marzo 1956 all’inizio del 1982. Sarà lui a dare un contributo decisivo alla formazione di una nuova immagine del ruolo del paese nel contesto internazionale, sostenendo la “neutralità attiva e pacifica”. Con gli accordi di pace la Finlandia perse definitivamente i territori riconquistati e nel 1948 firmò un “Trattato di mutua amicizia, cooperazione a assistenza” con l’Urss. Durante la Guerra fredda, il paese conobbe uno sviluppo economico che lo portò a superare il reddito pro-capite annuo svedese, conservando l’indipendenza, pur con i limiti ricordati, e i legami con la comunità scandinava, in particolare la tradizionale special relationship politico-diplomatica con la Svezia.
Restano due domande a cui dare risposta. Perché la Finlandia non subì la sorte dei tre stati Baltici, ovvero l’annessione all’Unione Sovietica, e neppure l’imposizione di un regime comunista e l’adesione al Patto di Varsavia? Il modello finlandese può essere preso a riferimento per l’assetto futuro della relazione russo-ucraina? Due tra le varie teorie avanzate per rispondere alla prima domanda paiono le più attendibili. La prima enfatizza la valorosa resistenza opposta dai finlandesi, definiti da Edward Luttwak migliori soldati del mondo, alle offensive sovietiche nelle due guerre combattute tra il 1939 e il 1944. Quanto sarebbe costata e quanto sarebbe stata stabile, stante anche la situazione ambientale, l’eventuale occupazione del paese? La seconda tesi fa invece riferimento al sistema di equilibrio regionale, la cosiddetta “Nordic balance”. Al contrario di Danimarca e Norvegia, nel 1949 la Svezia non aderì alla Nato, optando per la neutralità. La mancata adesione costituirebbe il contrappeso, il corrispettivo di un’altra rinuncia, quella dell’Unione Sovietica al pieno controllo della Finlandia. Queste ultime considerazioni introducono la risposta alla seconda domanda. Le condizioni storiche, culturali e sistemiche entro le quali si sviluppò il modello finlandese erano molto diverse da quelle che, fino al 24 febbraio scorso, condizionavano il rapporto tra Federazione Russa e Ucraina. La Finlandia fu parte, già relativamente autonoma, della Russia solo per poco più di un secolo. Il governo zarista si dimostrò comunque relativamente benevolo, in un paese la cui lingua e cultura ugro-finnica è radicalmente diversa da quella russa e legata, per quanto ben distinta, a quelle degli stati scandinavi. La Finlandia fu inoltre costretta nella sua storia a muoversi, compiendo scelte difficili ma traendone anche vantaggio, in un sistema regionale tripolare (Nordic Balance): Svezia-Russia-Germania, quest’ultima sostituita dopo la guerra dagli Stati Uniti. Resta un unico fattore che potrebbe accomunare l’esperienza della difficile relazione dei due paesi con la grande potenza vicina, incidendo sulla natura del rapporto: la resistenza, strenua, all’aggressione subita.
* Luciano Bozzo è professore di Relazioni internazionali e Studi strategici, Università di Firenze
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