Blinken saluta i ministri degli Esteri di Emirati e Bahrein dopo il summit del Negev (Foto LaPresse)

L'idea americana

Altro attacco in Israele, mentre si valuta l'evoluzione degli Accordi di Abramo a “Nato araba”

Luca Gambardella

Petrolio, Iran, terrorismo: il segretario di stato americano Blinken conclude il suo viaggio in medio oriente e prova a rassicurare Tel Aviv e gli alleati arabi

Ieri sera in Israele un uomo armato ha ucciso almeno cinque persone aprendo il fuoco sui passanti a Bnei Brak, nella periferia di Tel Aviv. Secondo i media locali si tratterebbe di un attacco terroristico, il terzo in appena una settimana. Secondo l’emittente Channel 12, le autorità israeliane sospettano che l’attentatore, ucciso dalle forze di sicurezza, sia un palestinese della West Bank. Il premier Naftali Bennett ha convocato una riunione urgente con il ministro della Difesa Benny Gantz, mentre decine di residenti di Bnei Brak sono scesi in strada e hanno lanciato slogan come “morte agli arabi” e “vendetta”. L’attacco arriva a poche ore dalla partenza del segretario di stato americano, Antony Blinken, che lunedì era in Israele per partecipare a un vertice con le autorità israeliane e gli altri paesi arabi che fanno parte degli Accordi di Abramo.  Poche ore prima dell’inizio del summit, due agenti della polizia di frontiera israeliana, appena 19enni, erano stati uccisi a Hadera in un altro attacco rivendicato dallo Stato islamico, il primo in Israele dal 2017. E prima ancora, un altro attentato a Be’er Sheva era stato sferrato da arabi-israeliani radicalizzati all’interno della Linea verde.

 

L’attentato contro “il summit della vergogna e dell’umiliazione” – così recitava la rivendicazione – è stata la carta usata da Bennett per dimostrare agli americani che il medio oriente non può essere trattato come fatto con l’Afghanistan, non è ancora pronto ad andare in autogestione con gli Accordi di Abramo. Il tour di Blinken nella regione è proseguito ieri in Marocco e si concluderà oggi in Algeria. Nessuna tappa è stata prevista nei paesi del Golfo, segno che le relazioni con l’America sono incrinate. “Siamo a uno stress test”, ha commentato l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati Uniti.  Le ultime settimane di guerra ucraina sono state segnate dagli emiri che si negavano al telefono a Joe Biden, che provava a convincerli di aumentare la produzione del petrolio per abbassarne i prezzi. I paesi produttori non vogliono saperne: “Quando entriamo in quella sala riunioni, la politica resta fuori dalla porta”, ha detto ieri il ministro saudita all’Energia, Abdulaziz bin Salman, riferendosi alla sala riunioni dell’Opec+ che si riunirà giovedì e che dovrà decidere se venire incontro alle richieste degli americani. Ieri Blinken ha incontrato a Rabat il principe ereditario degli Emirati, Mohammed bin Zayed al Nahyan. I due hanno parlato di greggio, ma anche di Iran.

 

L’accordo sul nucleare è dietro l’angolo, meglio imparare a conviverci, è stato il messaggio di Blinken. Anwar Gargash, consulente diplomatico dell’emiro di Abu Dhabi, ha aperto a una distensione con gli iraniani e ha detto che “ci stiamo riavvicinando agli amici, ma anche ai nemici”. E ieri, in vista dell’inizio del Ramadan, i sauditi hanno avviato i negoziati per un cessate il fuoco in Yemen contro gli Houthi, che combattono contro i sunniti una guerra per procura per conto dell’Iran. Ma oltre al nucleare iraniano c’è il pericolo dell’influenza cinese e russa nella regione e il focus del viaggio di Blinken è stato calibrato sulla rassicurazione degli alleati. Lunedì al summit di Sde Boker con gli alleati degli Accordi di Abramo,  Blinken ha invitato tutti ad abbandonare le titubanze per schierarsi contro il Cremlino. Finora, tutti i firmatari dell’intesa sottoscritta sotto il patrocinio di Trump hanno traccheggiato quando si è parlato di guerra in Ucraina: Israele ha provato a mediare con la Russia, ma non ha aderito alle sanzioni, gli Emirati il mese scorso  si sono astenuti al voto sulle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il Marocco ha disertato l’altro voto dell’Assemblea generale, il Bahrein ha votato in favore delle misure restrittive ma ha tenuto aperti i canali diplomatici con Mosca. Gli americani vogliono di più: chiedono un’aperta condanna dell’aggressione russa e magari l’invio di armi agli ucraini. Nonostante le richieste di Israele e dei paesi del Golfo  a non disinteressarsi della regione, gli americani spingono affinché se la cavino da soli.

  

Ieri il Wall Street Journal parlava della volontà americana di creare una “Nato araba”, un’alleanza militare in cui Israele avrebbe il ruolo di pivot  nella fornitura di armi agli alleati arabi – come il suo nuovo sistema laser anti  droni, più efficace ed economico dei Patriot americani. “Sin dall’inizio l’impeto con cui sono nati gli Accordi di Abramo ha riguardato soprattutto il desiderio di ogni paese di potenziare  la propria sicurezza”, spiega al Foglio Hugh Lovatt, ricercatore dell’European Council on Foreign Relations. “Dal punto di vista israeliano, fornire armi agli  arabi permetterebbe di avvicinarli a sé e quindi sarebbe nel suo interesse”. Ma l’idea di una metamorfosi degli Accordi in senso più squisitamente militare è ancora a uno stato embrionale. “Un’alleanza in tal senso è ancora difficile, quantomeno perché per ora non include l’Arabia Saudita”, dice Lovatt. Poi c’è l’elefante nella stanza: la questione palestinese. “Retorica a parte, gli Accordi di Abramo non hanno mai avuto nulla a che fare con la pace. Piuttosto, hanno aumentato la frustrazione e contribuiscono a una futura implosione della rabbia dei palestinesi contro Israele”. Mentre Blinken e gli alleati mediorientali si riunivano a Sde Boker, piccolo kibbutz dove si ritirò il primo premier israeliano Ben Gurion, alcuni palestinesi protestavano all’esterno e brandivano dei cartelli contro il vertice. C’era scritto: “Forse manca qualcuno?”. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.