La nostra ritirata

La guerra di Putin è stata provocata sì, ma dal nostro lassismo

Adriano Sofri

Kyiv, la Siria, i sovranisti. L’espansione irresistita della Russia degli oligarchi ha attecchito ovunque l’occidente si sia voltato dall’altra parte

Mi sono occupato di troppe cose, dunque mai abbastanza. Una mi sta fissa in mente: è la catastrofe del primo Dopoguerra, dell’odio irriducibile che la guerra aveva scavato fra neutralisti e interventisti, e fra interventisti democratici e fanatici nazionalisti, soldati di leva e ufficiali arditi.

  

Una voglia di inimicarsi

Per una parte, quell’odio seguiva una demarcazione di classe. Per un’altra parte, metteva gli uni contro gli altri i nemici della “guerra dei padroni”, e i tanti che alla guerra avevano aderito come a un completamento risorgimentale, o come al destino di una generazione cui, senza illusioni, non si voleva mancare. Da quel rancore irrisarcito sarebbe venuto il trionfo fascista. Ci penso, oggi, di fronte alle lacerazioni che la guerra contro l’Ucraina provoca fra persone che confidavano di avere molto in comune, pur reduci fresche di un’esperienza, della pandemia e dei vaccini, che quella comunione aveva già scosso dalle radici. Al punto in cui siamo, trovo assurda la virulenza della rottura sul tema apparentemente cruciale del dare o no le armi alla resistenza ucraina. Non intendo il governo, che decide con altri criteri e altre fedeltà: ma la disposizione di ciascuno. Platonica, ma certo impegnativa: io darei un’arma – se l’avessi, se sapessi procurarmela – a chi si sta difendendo e me la chiede. A chi, accanto a me, rifiutasse di farlo, e scegliesse un altro modo di aiutare chi ne ha bisogno, non avrei da opporre, salvo che spingesse la sua obiezione di coscienza al punto di voler impedire la mia scelta di coscienza. Eppure, è su questo che ci si sta miopemente accanendo: e inimicandosi. È curioso, che una filosofia desiderosa di rimuovere da sé l’idea stessa del nemico si presti così rapidamente all’inimicizia nuova e per così dire intima.

  

La liberazione incompiuta

E allora, qual è la radice di sentimenti così accaniti? Si è ammonito a non fermarsi alla cosa, in sé indiscutibile: la guerra d’aggressione di Putin. A risalire alle premesse, perché le cose non nascono dal niente. Certo. Il curriculum di Putin, dal 1999 della seconda guerra di Cecenia, avrebbe dovuto bastare, ma per i più non era così. Dunque giusto andare indietro. Si è raccomandata la complessità, e si è ironizzato sulla complessità ridotta al luogo comune dell’espansione della Nato a est, fino ad “accerchiare” la Russia. Si è avvertito che a riandare indietro con le cause non se ne verrà a capo, a costo di risalire al Diluvio.

 

Tuttavia, almeno a me che ho a cuore la confusione di lingue e di sentimenti nella comunità residua che si sente di sinistra – e non c’è altro modo di riconoscere la sinistra se non attraverso l’autocertificazione – a me e a molti altri sembra piuttosto utile risalire all’89 della caduta del Muro e di tutto il mondo di vite e di pensieri che il Muro imprigionava. Quella che per alcuni di noi fu una liberazione sorprendente ed entusiasmante, fu per altri una stretta al cuore, il senso, se non di una sconfitta ormai consumata, almeno di una perdita luttuosa. Per chi la sentì come me, e del “socialismo reale” non aveva provato l’attrazione nemmeno per una mattina, l’intera vicenda della dissoluzione dell’Urss e della dissociazione delle sue repubbliche verso l’indipendenza (schiacciata nel sangue dove le armi avevano più mano libera, come nelle repubbliche caucasiche) appartiene al lungo assestamento di quella liberazione, della mercuriale notte di Berlino in cui un’Europa che da sempre votava clandestinamente coi piedi poté venire a ballare in corteo dall’altra parte.

 

Gorbaciov e poi Eltsin furono gli autori fra intenzionali e (più) accidentali di quella liberazione e della dissoluzione imperiale corrispondente: Putin, il più opaco, il più frustrato e più accidentale, se ne concepì come il vendicatore. Dunque penso che l’Ucraina che si batte contro l’armata colossale di Putin, in modo stupefacente come fu stupefacente e stupefatta la notte berlinese del Muro, sia, con la Bielorussia dietro l’angolo, l’episodio culminante della liberazione dal giogo zarista, sovietico e ora nudamente imperiale. Non ci sarebbe differenza fra l’Ucraina di oggi e l’Ungheria del 1956 né la Praga del 1968 senza quella resistenza. Anche gli ungheresi che ascoltavano Radio Free Europe si sentivano incitati alla ribellione e alla rivoluzione, e sperimentarono poi la realistica impossibilità occidentale di soccorrerli. 

  
Dunque l’Ucraina di oggi – sgangherata com’è, vogliosa di Europa e di democrazia nelle e nei suoi giovani, nelle sue badanti, pronta, se le circostanze si prestassero, a mettersi in fila per l’acquisto dello Swatch, inquinata da torbide memorie del passato, devota a eroi ripugnanti al resto del mondo che non ne condivise le tragedie, fitta di combattenti oltranzisti del nazionalismo che la guerra di Putin è fatta per promuovere, traversata da umori antisemiti con un presidente ebreo dagli avi falcidiati, questo guazzabuglio di lingue e di gelosie alla ricerca di sé – questa Ucraina è l’appuntamento forse ultimo, così assurdamente dilazionato, con l’Ungheria del ’56, la Cecoslovacchia del ’68, l’Europa di mezzo sequestrata, che possa finalmente contare sulla simpatia del mondo. L’Ucraina che ogni giorno ricorda al mondo il Memorandum di Budapest del 1994, quando si rassegnò a rinunciare al suo formidabile nucleare militare in favore della Russia: di malavoglia, temendo di mettersi così in balìa del prepotente confinante, e oggi il mondo impara da lei che per mettersi al sicuro dalle invasioni occorre armarsi di testate e missili nucleari, ci pensino i bravi desiderosi di disarmo.

   

L’altra “espansione”

E allora, arrivati a questo punto, possiamo accogliere le riserve di rimproveri e di rimpianti per una ottusità o una inerzia o un cinismo della Nato, degli Stati Uniti, dell’Europa, sull’insicurezza percepita della Russia, l’umiliazione dei suoi ultimi (l’umiliazione non è di casa sugli yacht ridicoli degli oligarchi), la disattenzione nei confronti di tutte le Minsk… Dico davvero, non voglio soltanto fare una concessione retorica. Non tengo a limitare l’effetto iperbolico dell’argomento dell’“espansione della Nato” (Canfora, come hai potuto?). Voglio, al contrario, proporre l’argomento dell’espansione irresistita della Russia di Putin. Della Russia dalla vita media breve, dalla sanità malandata, dalla povertà larga, dalle libertà mutilate, dall’economia primitiva, gas e petrolio e altre materie prime trovate: per il resto armamenti, da esportare come merci o addosso a uomini. Mettete a confronto con “l’espansione della Nato” la svelta manomissione della Siria – Putin non ha bisogno di consultare parlamenti né di saggiare l’opinione pubblica – dopo che l’incauta linea rossa fissata da Obama venne violata da Assad col gas sarin, e Obama (e il Papa che lo scongiurava) regalò semplicemente la Siria a Putin. E dietro di lui alla sopravvivenza di Assad e alla congerie sciita di iraniani, milizie filoiraniane irachene e Hezbollah. In quella Siria il conto di morti (più di 400 mila) feriti e profughi, e armi chimiche, bombe iperbariche, bombe a grappolo, venne chiuso ufficialmente per eccesso di rialzo. Non una manifestazione notabile, in Europa, per il mattatoio siriano. E da allora una corona di imprese, dirette o confidate ai mercenari del Gruppo Wagner, in Africa, in Libia

   
Ancora più smagliante è l’espansione in Europa, non militare questa volta, perciò più sbalorditiva: una riduzione di tanta politica europea alla zona d’influenza putiniana, e dello spirito pubblico europeo, italiano il più ubriaco. Leader dei partiti maggiori, caricature di una gara a farsi riconoscere e comprare dalla corte dei miracoli del Cremlino, e dietro loro un sentimento diffuso di ammirazione per i modi sbrigativi e l’idioma triviale dell’autocrazia, così simpatetico con l’evoluzione di quello nazionale. Sovranismo, in Italia, ha significato putinismo, e ancora la simpatia pesa, nonostante la disinvoltura di Meloni, il pellegrinaggio di Salvini a Przemysl, il mancato invito di Putin al mancato matrimonio di Berlusconi. Una farsa che ha scavato nel profondo. E nel famoso coacervo che si autocertifica, e soprattutto si scomunica, come sinistra, insiste l’idea di una parentela fra Putin e i combattenti di Stalingrado: come già fra il nazionalcomunista Milosevic e la resistenza antifascista jugoslava. 

  
Passò liscia la Georgia, il Donbas, la Crimea. Poi fu la volta del Russiagate e del mostruoso interregno (speriamo) di Trump. Un giorno si farà la storia per aneddoti piccanti dei nostri anni, dal Trump nelle stanze d’albergo-bordello di Mosca all’assaltatore californiano del Campidoglio del 6 gennaio appena accolto dall’asilo politico in Bielorussia. 

  
Non richiamo l’attenzione sul versante putinista dell’espansione per compensare – equidistare – quello atlantista. Piuttosto, per avvertire che se la diserzione miserabile di americani e alleati da Kabul ha persuaso Putin che avrebbe avuto mano libera, come già nella Siria disertata da Obama, per invadere l’Ucraina, un’autorizzazione altrettanto influente gli è venuta dal prestigio ruffiano di cui ha goduto in Europa, da un cancelliere tedesco come Schröder assunto ancora caldo di servizio, da un’economia beatamente affidata al suo gas, da una gran reputazione, insomma. Dal fascino del suo linguaggio così franco, così diretto, così inimitabile e imitato: “Distinguere i veri patrioti dai bastardi e dai traditori, e sputarli fuori come moscerini finiti per sbaglio in gola”. 

   
Putin non ha solo frainteso terribilmente il popolo ucraino di ogni lingua, ha anche contato tranquillamente sull’inerzia cortigiana e vile dell’Europa. Ha pensato che lo avrebbe aspettato una passeggiata, e noi glielo avevamo fatto pensare.