Democrazie in salute
L'invasione dell'Ucraina doveva segnare la fine dell'occidente, invece le democrazie se la cavano bene
Siamo sfiorati da dubbi di tipo nuovo, e a conti fatti non del tutto sconfortanti. Il mondo è ancora in piedi
La storia orrenda dell’invasione russa dell’Ucraina deve ancora finire di essere scritta, ma prima che si iniziasse quelli che la sanno lunga (e palloccolosa) nutrivano estreme certezze sulla forza espansiva di Putin e la debolezza o declino del fronte occidentale. Dicevano che nei rapporti commerciali e strutturali con Russia e Cina la Germania era ormai dall’altra parte (Schröder) o imbrigliata in una logica di arginamento e integrazione (Merkel) che non avrebbe potuto rovesciarsi o correggersi. Dicevano che Macron giocava da pontiere e la sua diagnosi sulla Nato in stato di morte cerebrale era definitiva. Dicevano che il Regno Unito era un’appendice non significativa del legame speciale con Washington e per il resto un satellite uscito dall’orbita della partnership europea per un’avventura solitaria nello spazio economico globale. Dicevano che Biden era un leader debole, incalzato dal trumpismo, impegnato nella competizione dell’Indo-Pacifico e ormai lontano dall’Europa. Dicevano che l’Unione era minata da impotenza e divisione, un’entità mercantile e giuridica senza anima politica, pressata dal fascino delle democrature e del coordinamento del gruppo di Visegrád. Il tutto si riassumeva in un giudizio impietoso sulle élite occidentali alle prese con il risveglio di nazione, sovranità, populismo, e altre chiusure ribollenti eccitate dalla mobilità migratoria.
Qualche elemento di realismo in alcune di quelle dicerie c’era bensì, ma alla luce dei fatti di quest’ultimo mese di guerra e controffensiva bisogna concludere che all’ingrosso erano diagnosi su “rischi fatali” (Tremonti) essenzialmente favolistiche o campate per aria. Le democrazie occidentali appaiono oggi in controllo, abbastanza sicure di sé anche nelle dure traversie generate dall’inaudita riproposizione di un espansionismo neoimperiale e cingolato alle loro porte.
La Germania ha fatto le scelte necessarie in controtendenza rispetto alla sua vocazione all’Ostpolitik, che pure era stata, insieme alle processioni della Madonna Nera di Solidarnosc (chiedo scusa al vicedirettore di questo giornale e a Massimo Borghesi, negatori della dimensione anche schiettamente religiosa del giovanpaolismo e del ratzingerismo) e al riarmo di Reagan, tra le origini del crollo dell’impero sovietico: non cambia in rubli i contratti, stanzia di brutto per gli armamenti, si prepara con la neutrale Austria a politiche spericolate di contrasto alla dipendenza energetica.
In Francia nazionalisti e sovranisti, per quanto istituzionalizzati il possibile da una astuta Marine Le Pen, stanno per pagare lo scotto imposto dalle repliche della storia (e Zemmour è sulla via del ritorno ai talk-show). I britannici mostrano saldo il riflesso condizionato del liberalismo armato, che fu della Thatcher, di Blair e ora di Boris Johnson, e la Brexit si ridimensiona a blasone tradizionalista e libertario. Il paese più chiuso all’immigrazione, la Polonia, accoglie quasi un milione di fratelli ucraini in fuga (in maggioranza donne e bambini, non i famosi ingegneri elettronici siriani della Merkel). In America il trumpismo sembra avere ancora buone chance elettorali, ma il mentore traffica spudoratamente con il suo padrone morale Putin sulla denigrazione del presidente Biden, un giorno, e l’altro giorno finge di voler premere il bottone nucleare da un sottomarino Usa. Certe volte storia e geografia mettono in scena le loro repliche alle costruzioni astratte e alle ideologie, per non dire ai deliri, in modo veramente sorprendente, fulmineo, ultimativo.
Quante volte si è ipotizzato che la fine della Guerra fredda fosse l’origine dei guai dell’occidente, per la scomparsa dell’avversario strategico, che unificava e nutriva il cervello (e l’intelligence) delle élite di stato. Ora saremmo in presenza della sindrome del nemico geografico ritrovato, e dei suoi gravi errori di calcolo nell’avvio dell’avventura devastatrice ma cieca. Quante volte si è ipotizzato che i mercati non conoscono democrazia e alleanze, e che le autocrazie potevano tranquillamente prosperare e espandersi alla faccia di quel rottame che era l’atlantismo a fronte della globalizzazione, ipotesi a quanto pare smentita dal regime delle sanzioni, con tutti i suoi inevitabili costi di rimbalzo. Siamo tutti stati sfiorati da molti dubbi, che ora non sono sostituiti da certezze, per carità, ma da dubbi di tipo nuovo, e a conti fatti non del tutto sconfortanti.