La "brigata gay" in Ucraina: "Non combattiamo più solo per i nostri diritti ma per il nostro paese"
Sono 100 mila i civili entrati nelle Territorial Defence Forces formate dai riservisti che si affiancano alle forze armate ucraine. Tra questi anche persone LGBTQ. Non un vero battaglione arcobaleno ma tante storie individuali. Eccone alcune
Borys al quarto tentativo finalmente è riuscito ad arruolarsi. “Eravamo in tanti: volevamo tutti difendere il nostro paese”. Non sembra vero, ho ancora nelle orecchie quel ragazzo intervistato dal Times che si lamentava della legge marziale che lo costringeva a rimanere “solo perché ho il pene”. Borys invece è convinto. Sarà perché è nato 4 anni dopo l’indipendenza dell’Ucraina del 1991, sarà perché a 18 anni ha partecipato alla rivoluzione della dignità a Kyiv, sarà perché ha fatto il volontario nel Donbas, ma è felice d’essere diventato un soccorritore militare. Dice al Foglio che il modo migliore per tutelare i diritti oggi è con “una mitragliatrice e un esercito”. Borys è anche gay.
Dall’inizio dell’invasione russa sono 100 mila i civili entrati nelle Territorial Defence Forces formate dai riservisti che si affiancano alle forze armate ucraine. Tra questi anche persone LGBTQ. “Purtroppo la maggior parte di loro non può ancora parlare di sé apertamente”, ma si raccontano sui social, come mi scrive Yulia Che, social media manager di “Union of the LGBT military, veterans and volunteers”, l’associazione nata da Viktor Pylypenko, un veterano del Donbas. “Ci sono ancora omofobi tra i militari. Alcuni soldati scelgono il don’t ask, don’t tell, altri si dichiarano. Dall’inizio della guerra si sono fidanzate sei coppie”.
La brigata gay all’inizio evocava in me i migliori amici delle soldatesse, i carri armati guidati male, gli adesivi e i glitter sulle armi. Mi piaceva l’ironia nelle loro foto: c’è il pole dancer che si fa il selfie in mimetica, c’è la drag raver che trasporta medicinali al fronte per le truppe, c’è il twink sempre in mutande che rispetta la divisa. I più scettici diranno che è pinkwashing, ma forse è solo un’altra forma di lotta per la visibilità. Le priorità sono cambiate, dice Yulia: “La guerra che stiamo combattendo oggi non è solo per chiedere diritti per la nostra comunità, ma per l'intera nazione”.
Non esiste un battaglione arcobaleno ma solo individui. Oleksandr è impiegato col suo ragazzo nelle Territorial Defence Force. Spiega che alcuni di loro non hanno mai preso un’arma prima, lui è un attore e il suo ragazzo un regista teatrale. La sua unità protegge il magazzino, gli hanno insegnato a impugnare una pistola e a sparare. Dice: “L'esercito è un brutto posto per chiunque. Alcuni mi aggiungono sui social e scoprono che sono gay ma non sembra gli importi”.
Un altro ragazzo scrive che “addormentarsi sotto le esplosioni in realtà non è difficile se hai trascorso l'intera giornata con una mitragliatrice in mano”, e che ci si abitua anche all’assenza di sesso, ma se apri Grindr a Kyiv peschi tutti quelli che cercano un incontro, i gay riuscirebbero a scopare anche a Kabul. Un soldato dice “ma è normale, si cerca di vivere, stamattina ho fatto colazione con avocado toast sotto alle bombe”. Se ti localizzi a Mariupol vedi i ragazzi di Rostov, in Russia. Se gli chiedi cosa ne pensano della guerra ti rispondono tutti la stessa cosa: “Non è affare mio”.
Max fa il soldato professionista dal 2018, si trova a Kyiv, non parla della sua omosessualità perché sostiene che nell’esercito non sono particolarmente pronti. “Alcuni quando scoprono che sei gay ti parlano solo di lavoro e diventano più freddi o ti prendono in giro”. Ma non sembra il suo principale problema. Mi dice che dopo anni al fronte vorrebbe smettere d’essere un militare: “In guerra ho capito che la vita di una persona non vale niente”.
“C’è la stessa idea di unità della Rivoluzione della dignità”, insiste invece Borys. Maidan vuol dire piazza e, a seconda di come la pensiate, nel 2018 ci fu una rivoluzione o un colpo di stato. Se siete tra i primi credete nel diritto alla riunione pacifica, all’autodeterminazione, alla democrazia; se siete tra i secondi preferite la repressione dell’ex presidente Janukovyc, il gas russo scontato di Putin come sedativo alle proteste e vivere felicemente legati a un impero antiamericano. Secondo lo storico Yaroslav Hrytsak la rivoluzione della dignità fu di “giovani molto istruiti ma senza futuro”. In quel futuro c’era scritto Europa ma Putin leggeva Russia.
Immediatamente dopo la rivoluzione c’è stato il primo Pride a Kyiv, proprio mentre Putin aumentava le leggi liberticide in Russia (multe anti-propaganda gay per proteggere i bambini sognate anche dalla nostra destra). “Il mio odio per i russi peggiora di giorno in giorno”, dice Yuriy Dvizhon, regista e fondatore di Ukraine Pride. Racconta al Foglio che a Ternopil è una bella giornata di sole, le mamme giocano coi loro bambini. Tutto normale, a parte le sirene antimissile che sento in sottofondo. Yuriy spiega che aveva amici russi ma non ci parla più perché sono fritti dalla propaganda. “Abbiamo provato in ogni modo a dirgli la verità, ma non c’è niente da fare”.
La domanda è se è Putin ad aver spinto gli ucraini alla russofobia o è la cultura imperiale russa ad aver prodotto Putin. “È un peccato che le persone nel mondo occidentale ancora non lo capiscano. È un errore pensare che tutti vogliano vivere come in Occidente”. Gli chiediamo se le percentuali di consenso di Putin siano affidabili. Risponde che ci crede e che i cittadini sono responsabili. Gli ucraini fermano a mani nude i carri armati, i russi potrebbero protestare in milioni. Ma non lo fanno. Borys è disposto a difendere l’Ucraina per difendere l’ordine globale. “La Russia è un impero. Qualsiasi democratizzazione significherebbe la sua disintegrazione. I leader russi lo hanno sempre capito”.