gli spettri europei
A Parigi c'è paura di Le Pen e ci si guarda allo specchio con Budapest
Domani si vota in Ungheria. È in vantaggio Orbán che neppure con la guerra ha rinnegato il capo del Cremlino
Parigi, dalla nostra inviata. Pensavamo che Donald Trump non potesse vincere e ha vinto, pensavamo che Vladimir Putin non potesse invadere l’Ucraina e l’ha invasa, pensiamo che Emmanuel Macron non possa perdere e…? Questo è l’umore parigino, a una settimana dalle presidenziali francesi, in questa campagna elettorale che non si sente, sommersa dalle preoccupazioni internazionali, dall’immutabilità di una sfida che potrebbe essere uguale a quella del 2017, Macron vs Le Pen, e dall’effetto perverso dell’inevitabilità: vince lui, chi altri?
I sondaggi dicono che Marine Le Pen, leader del Rassemblement national, dovrebbe arrivare seconda dietro al presidente e accedere al ballottaggio, lasciandosi dietro Jean-Luc Mélenchon, il candidato più forte dell’area di sinistra (sinistra radicale, contro la Nato, contro l’Europa, più vicina a Putin che all’occidente) e soprattutto gli altri candidati di destra: Valérie Pécresse, candidata lievissima dei gollisti, ed Éric Zemmour, lo sfidante interno al sovranismo, ma più nero e sulfureo e inquietante. Al punto che Zemmour, effetto boomerang, ha costruito la trasformazione della Le Pen che lei da sola non era riuscita a fare: sembrare più moderata, meno estremista, più votabile. E’ un’illusione ottica ovviamente, ma i macroniani la sentono come una minaccia concreta: ci sono voti che si danno per appartenenza, dicono nelle loro conversazioni fitte fitte, ma poi ci sono i voti emotivi, determinati dal contesto del momento, volubili, inafferrabili. E’ lì che le illusioni hanno più presa ed è sempre lì che il candidato inevitabile, il presidente in carica che garantisce efficienza e continuità, va giù di traverso. Lo spettro lepeniano si sente, anche in questa campagna elettorale che non c’è, ma ci sono l’incertezza, le bollette in aumento, un’altra battuta d’arresto economico-sociale proprio quando pareva di vedere la fine della pandemia.
Lo vorremmo in dissoluzione, questo spettro, soprattutto ora che c’è bisogno di tutta la compattezza di valori e di intenti dell’occidente per contrastare l’aggressione di Vladimir Putin, e non c’è testa né forza residua per combattere i nemici interni. Lo vediamo tutti i giorni con l’ostilità antieuropea dell’Ungheria, la guerra di logoramento di Viktor Orbán che già si malsopportava prima, figurarsi ora che ai confini c’è una guerra vera, brutale, che pensavamo non avremmo mai più visto in Europa. Domani si vota in Ungheria e prima che l’invasione ucraina sconvolgesse le priorità il voto ungherese e quello francese erano due contese allo specchio, il leader sovranista e nazionalista dell’est contro uno sfidante, Péter Márki-Zay, europeista e liberale; e il leader europeista e liberale dell’ovest contro la sfidante Le Pen, sovranista e nazionalista. Due facce dell’Europa, una grande domanda sulle possibilità di convivenza future tra questi due mondi sempre più distanti.
Secondo i sondaggi, Orbán vince il suo quinto mandato da premier (il quarto consecutivo) e non ha nemmeno fatto la finta della Le Pen che ha gettato via in fretta e furia i volantini con su la foto assieme a Putin. Orbán è fieramente contrario a inviare armi a Kyiv, a fare l’embargo petrolifero a Putin, a far transitare sul terreno ungherese i mezzi con le forniture militari per l’Ucraina. Usa il suo diritto di veto, fa l’occhiolino ai sovranisti come lui, dice che il suo è il partito per la pace, proprio come i russi che dicono di volere la pace mentre si ingoiano a suon di bombe un altro pezzo di Ucraina. Lo spettro lepeniano, improvvisamente così spaventoso da occupare tv e giornali francesi, va a braccetto con quello orbaniano: insieme cantano la fine dell’ordine liberale globale e il declino dell’occidente – lo spartito di Putin.