il foglio del weekend

Addio Novaja Gazeta

Micol Flammini

Era il giornale di una Russia nuova e ambiziosa che voleva raccontare il futuro. Dalla Cecenia all’Ucraina, che rumore fa una voce che muore

Esisteva l’ambizione di una Russia nuova. Una Russia aperta verso il mondo e dal mondo accolta. Una Russia non minacciosa, fervente di idee, desiderosa di futuro, seducente. Questa Russia, che era un progetto, doveva avere le sue voci, i suoi pedagoghi, i suoi costruttori, perché  era ancora tutta da fare. Erano gli anni Novanta e iniziavano a comparire nuove testate, piene di curiosità  ed  entusiaste di raccontare il cammino della nuova Russia. Uno dei problemi fu che questa nazione bellissima e molto fiera, ognuno se la immaginava nel futuro un po’ come voleva. Ma di questo se ne sarebbero accorti tutti molto tardi: ognuno aveva in mente la propria Russia del domani e anche gli europei o gli americani ne avevano in mente una, che non coincideva con quella che aveva in testa la maggior parte dei russi. Ma ci sarebbe stato tempo per rendersene conto, e la presa di coscienza, per molti in occidente, è stata una sorpresa dolorosa. In questo tramestìo di novità – mentre Mosca, vista dal nostro lato, sembrava enorme e lì invece si sentiva piccolissima per essere rimasta semplicemente Russia e aver perso tutto il resto – nacque un progetto che nel suo nome aveva quell’aggettivo pieno di futuro: Nuovo Giornale. In russo: Novaja Gazeta. La formarono parte di giornalisti che avevano abbandonato la Komsomolskaja Pravda e tra loro c’era Dmitri Muratov. 

 

Muratov è l’ultimo premio Nobel per la Pace, assieme alla giornalista filippina Maria Ressa, e pensando a se stesso da giovanissimo non avrebbe mai pensato di diventare uno che si occupava di giornalismo, anzi, uno impegnato a scrivere la storia. Ma, dopo tutto, neppure Vladimir Putin, il presidente russo, dando uno sguardo alla sua giovinezza, avrebbe mai pensato di poter essere l’inquilino del Cremlino. Erano tutti e due ragazzi di periferia che trascorrevano le giornate tra una rissa e l’altra.

 

Dmitri Muratov, direttore del giornale e premio Nobel, da giovane pensava di fare il camionista. Si iscrisse all’università soltanto per amore

 

Muratov è nato nella città che oggi si chiama Samara, sul Volga. Viveva in casa con sua madre e sua nonna, che trascorrevano gran parte del loro tempo a lavorare. Muratov è cresciuto giocando per strada e  a hockey in campi improvvisati e, finite le superiori, pensava che sarebbe diventato un camionista. Non andò così, era innamorato di una ragazza e per lei si iscrisse all’università. L’amore finì, ma i professori, le stanze fumose, le discussioni, la letteratura clandestina che scorreva da un banco all’altro, fecero il resto. Muratov trascorse gli studi a leggere moltissimo e a chiacchierare, non tutto era lecito, ma tutto gli sembrava incredibilmente interessante. Finiti gli studi, capì che non avrebbe fatto il camionista e andò a bussare alla porta del Volzhskij Komsomolets. Era un giornale locale, per giovani e pieno di giovani, non un posto per dissidenti, ma neppure il cuore del Partito comunista, che invece a un certo punto fece irruzione nella sua vita e lo chiamò per offrirgli un lavoro nel suo giornale. Rifiutare voleva dire trascorrere due anni nell’esercito e Muratov rifiutò. Passò i suoi anni con l’uniforme addosso e tornò al Komsomolets. Il suo sogno era scrivere la storia e proprio in quel periodo la storia era qualcosa di luminoso, stava arrivando un uomo che non assomigliava per nulla a quelli che lo avevano preceduto, un uomo che, finalmente, sembrava a colori. Era Mikhail Gorbachev e stava cambiando tutto: sembrava di vederla la Russia del futuro e Muratov era ansioso di raccontarla. Si ritrovò a Mosca, nella strada Pravda, dove aveva sede la redazione della Komsomolskaja Pravda. Per un giovane arrivato da Samara, la capitale sembrava una locomotiva enorme, sempre affaccendata, rumorosa, caotica. E poi c’era la storia che sembrava ugualmente enorme, ugualmente affaccendata, rumorosa e caotica.

 

Bisognava scriverne, anche perché andava velocissima, era complesso starle dietro e i giornalisti si erano ritrovati nelle condizioni di raccontare molto di più di quello che fosse concesso loro in precedenza. C’era anche l’opportunità di creare qualcosa di nuovo e a Muratov venne in mente l’idea: il Nuovo giornale, la Novaja Gazeta, che uscì per la prima volta il primo aprile del 1993 e la prima pagina sfrontata portava la scritta: “Alcune domande per noi stessi”. Gorbachev non c’era più, era arrivato Boris Eltsin e l’anno dopo scoppiò la guerra in Cecenia, la prima. Muratov andò a coprirla e gli sembrò impensabile che Mosca potesse distruggere, bombardare, ridurre alla fame i suoi stessi concittadini: era davvero quello il futuro? La giornalista del New Yorker, Masha Gessen, che è nata e cresciuta in Russia, poi si è trasferita negli Stati Uniti e a Mosca è tornata per lavoro, ha scritto che quello fu il momento in cui in Russia cominciò l’èra del cinismo. I russi volevano guardare altrove, non la guerra, non i bombardamenti, non la distruzione, volevano fare finta di crescere ancora e quindi non avevano occhi per la Cecenia. Il Cremlino lo capì e l’intuizione che la verità potesse essere costruita, fabbricata, venduta, diventò una delle linee guida del potere in Russia. Con una differenza: con Eltsin esisteva il varietà dell’informazione, ma esisteva  anche l’informazione. Lo Novaja Gazeta non si sentiva limitata e raccontava tutto, non aiutava il popolo russo a guardare altrove e a distrarsi, ma scriveva, usciva, pubblicava senza impedimenti. 

 

Gorbachev fu il primo a credere nella Novaja Gazeta e comprò ai giornalisti computer e stampanti. Sembrava di vederla la Russia del futuro

 

I giornalisti della Novaja Gazeta hanno iniziato a sentire la fine di questa libertà con l’arrivo di Vladimir Putin, l’uomo che ha stravolto il cambiamento, che ha detto al futuro di ritornare passato. Lo ha fatto neppure con troppa calma e a chi era in Russia, a chi inseguiva l’ ambizione della Russia aperta, emancipata, parve che quell’uomo fosse inconciliabile con questo sogno. Ma arrivò anche il dubbio che il successo del nuovo presidente fosse indice di un fatto: forse non tutti in Russia desideravano quel futuro, forse in tanti erano rimasti impigliati indietro e mentre una parte della nazione spingeva in avanti, l’altra parte puntava i piedi. Succede spesso così con le nazioni che inseguono un mondo che è andato troppo avanti: c’è chi resta indietro, chi va più lentamente e se c’è qualcuno che gli mostra il volto del passato, che promette il riscatto del tempo andato, lo preferisce ad ogni promessa sul futuro. 

 

Putin arrivò, parlava schietto, parlava come quelli rimasti indietro, e finì il lavoro in Cecenia, dove intanto era scoppiata la seconda guerra, che interessava molto meno della prima. Ma non alla Novaja Gazeta. A seguire il conflitto però non c’era più Muratov, c’era la giornalista Anna Politkovskaja, che documentò tutto, ogni atrocità, le stragi, gli ostaggi, i soprusi compiuti dallo stato russo su quelli che comunque riteneva suoi cittadini e la dittatura dei Kadyrov. La Politkovskaja sopravvisse a un tentativo di avvelenamento e poi fu uccisa nel 2006. Le spararono in ascensore, la polizia sequestrò il suo computer in cui c’erano tutti i suoi lavori, anche l’ultimo in uscita. Muratov raccontò che si trattava di un’inchiesta sulle torture delle forze di sicurezza cecene ordinate dall’allora primo ministro Ramzan Kadyrov, oggi capo della Repubblica di Cecenia.  Il giornale riuscì a costruire l’articolo con gli appunti della Politkovskaja. In una delle ultime interviste, Muratov ha ricordato quanto la Cecenia sia stata importante per la Novaja Gazeta, è stata la sveglia, il primo dolore legato alla storia del suo nuovo paese che non sembrava più tanto nuovo e soprattutto alla morte della Politkovskaja. La giornalista non aveva soltanto raccontato, era stata parte attiva di molti avvenimenti. Quando un gruppo di terroristi ceceni entrò nel teatro Dubrovka di Mosca prendendo in ostaggio quasi mille persone, lei era lì, negoziò e convinse i sequestratori a lasciare entrare acqua per gli ostaggi. Alla Dubrovka morirono centosettanta persone: nel sistema di ventilazione, le forze speciali russe introdussero degli agenti chimici. Due anni dopo, la Politkovskaja partì per Beslan quando un gruppo di ceceni prese in ostaggio una scuola. Voleva negoziare anche lì, ma durante il viaggio è stata avvelenata. Morirono più di trecento persone, dopo un assedio durato due giorni. 

 

Il primo a credere nella testata fu Gorbachev che, si dice, con i soldi del suo premio Nobel per la Pace, comprò i computer, le stampanti e tutto l’occorrente, e Novaja Gazeta si è trasformata in un grande esperimento. Era un giornale senza editore, era di proprietà collettiva del suo personale; per un breve periodo il miliardario Alexander Lebedev ne aveva acquistato una quota di minoranza, ma poi si trasferì a Londra e la restituì. Era un giornale progetto, un esperimento di funzionamento democratico, qualcuno dice: se la Russia al bivio avesse preso l’altra strada, sarebbe stata così. Anche perché con gli anni la Novaja Gazeta diventò anche  più attenta ai diritti pur trovando sempre il suo modo di sfuggire alla censura: e questo le è stato anche rimproverato. Uno di questi sistemi in realtà era un retaggio sovietico, un sistema che negli anni del comunismo veniva usato per superare la burocrazia e farsi ascoltare: si sperava che tramite le lettere ai giornali si potessero ottenere cose più in fretta che sporgendo reclami a uno dei tanti uffici dell’Unione sovietica. Bisognava stare attenti che la lettera non venisse prima bloccata dalla censura, ma se passava, succedeva anche che le richieste venissero ascoltate. La Novaja Gazeta ha ripreso lo stesso sistema e alla fine degli anni Novanta ha organizzato una delle più grandi campagne per cercare i soldati dispersi in Cecenia. Quando l’esercito di Mosca si ritirò alla fine degli anni Novanta, lasciò indietro millecinquecento soldati. Nessuno, soprattutto le famiglie, sapeva chi fosse prigioniero e chi fosse morto. Le famiglie scrivevano al giornale e il generale Viacheslav Izmailov, che organizzava gruppi di ricerca e ne riferiva proprio sulle pagine della Novaja Gazeta, raccoglieva le richieste. C’erano file di fronte alla stanza della Politkovskaja per avere informazioni: era un giornale, ma  anche un’associazione, una speranza, un partito, una resistenza. Dopo Anna Politkovskaja, sono stati uccisi altri giornalisti. Igor Domnikov, che si occupava di corruzione; Juri Shchekochikhin, anche lui giornalista investigativo, aveva coperto la Cecenia, le violenze nell’esercito russo e la corruzione; Nastja Baburova che indagava sui gruppi neonazisti; Stanislav  Markelov, avvocato e giornalista; Natalia Estemirova, collaboratrice della testata e attivista dell’associazione Memorial, anche lei si occupava delle violazioni dei diritti umani in Cecenia. Molte di queste morti sono legate alla Cecenia, a tutti loro, Muratov ha dedicato il suo  Nobel. 

 

Davanti alla stanza della Politkovskaja si formavano le file di genitori che volevano sapere cosa fosse accaduto ai loro figli in Cecenia

 

La Novaja Gazeta è stata la voce dell’opposizione per eccellenza, il giornale della lotta, dell’inchiesta, quello che sopravviveva nonostante tutto fino a quando questa resistenza non iniziò a essere vista con sospetto. Fino a quando non arrivò un altro tipo di opposizione, che non era in contrasto, ma usava un altro codice. Fino a quando arrivò Alexei Navalny con i suoi navalniani, con le sue inchieste sulla corruzione, il suo modo di saper usare i social, la sua opposizione incendiaria. La Novaja Gazeta si portava dietro la sua storia, che era pesante, i suoi redattori si rinnovavano, ma erano convinti che per continuare a parlare bisognasse rimanere in equilibrio. Navalny ben presto iniziò a pensare il contrario, che ci voleva la rottura. Il giornale, Muratov e tutti gli altri diventarono anche un bersaglio dei navalniani, la loro sopravvivenza suscitava un dubbio acuto, fastidioso: resistono perché sono troppo morbidi con il potere? A volte è diventata una lotta tra vecchio e nuovo. Ma in realtà, dietro alle accuse, alle controversie sui metodi, tra i due mondi c’era anche della collaborazione. Quando Muratov ha vinto il Nobel, in molti si sono chiesti: perché non Navalny? Che già era in una colonia penale, che già era stato avvelenato. Muratov ha dedicato il suo premio anche lui. Ciò che è lecito e ciò che è illecito, in Russia, è cambiato di continuo. Muratov ha sempre saputo interpretarlo e ha saputo rimodellare i confini, plasmarli in modo che la Novaja Gazeta potesse continuare a pubblicare. Gli è stato rimproverato, come è stato rimproverato al suo amico Alexei Venediktov, direttore dell’emittente radiofonica Ekho Moskvy, l’eco di Mosca, di conoscere troppo bene il potere. La conoscenza c’era ed era quella che serviva per continuare a parlare.

 

Con Putin, il giornale capì che per sopravvivere doveva capire le regole della convivenza. Arrivò Navalny e l’equilibrio fu preso per connivenza

 

Poi è arrivata la guerra in Ucraina, l’invasione brutale, gli echi della Cecenia, di Grozny, dell’indicibile che va detto. La Novaja Gazeta è uscita con una copertina per sostenere l’Ucraina. Il titolo era: “La Russia. Bombarda. L’Ucraina.”. Gli articoli dentro erano in russo e in ucraino. Dopo l’invasione, prima ha chiuso Ekho Moskvy e i maliziosi si chiesero: come mai Novaja Gazeta è ancora aperta? Il giornale dedicò la sua prima pagina alla radio e la chiamò “Ekho Vojny”, l’eco della guerra. La legge sulle notizie false,  che proibisce di parlare dell’attacco contro Kyiv in modo diverso da come vuole il Cremlino, ancora non era entrata in vigore e la parola guerra si poteva usare. Oggi, in Russia la guerra si chiama “operazione speciale” e per continuare a scrivere, per continuare a raccontare, la Novaja Gazeta ha adottato le regole che voleva il Cremlino. La copertina del numero del giornale che seguiva  il nuovo codice richiamava “Il lago dei cigni” con le ballerine che danzano nel fuoco. Perché la Novaja si piega? Si domandavano. Per continuare a scrivere, era la risposta. 
Le ballerine non ballano più, gli echi non si sentono. C’è solo il rumore delle bombe. Il resto si è interrotto e anche Novaja Gazeta non parla più. Il giornale delle inchieste, la voce della nuova Russia, del futuro che deve ancora arrivare, ha annunciato che non uscirà più, finché durerà la guerra. Dice Muratov che Putin non è impazzito, voleva invadere l’Ucraina da prima del 2014, quando ha annesso la Crimea. E’ un piano, non c’è improvvisazione. E’ convinto di essere stato offeso, sminuito, umiliato dall’occidente, dall’Ucraina. Non ama le critiche, lo offendono; non ama le voci contrarie, lo insolentiscono. La Novaja Gazeta si è fermata, la Russia si è chiusa di nuovo in se stessa, e il mondo, quello liberale, non ha potuto fare a meno di sbarrarle la porta.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)