(foto di Ansa)

Il Foglio del weekend

Ucraina anno zero: pensare oltre le macerie

Stefano Cingolani

Da dove arriverà il piano Marshall per la ricostruzione? Quali tempi e quali risorse serviranno per ridare vita a un paese distrutto dalla guerra? La storia di Berlino e quella di Mariupol a confronto, per non ripetere gli stessi errori

La cinepresa scorre implacabile tra le rovine, scheletri di palazzi, cumuli di macerie, facciate cadenti, finestre sventrate, annerite come le occhiaie vuote dei teschi. La stentorea voce fuori campo introduce lo spettatore alla tragedia: “Tre milioni e mezzo di persone sembrano vivere nel loro elemento naturale non per forza d’animo o per fede, ma per stanchezza”, s’aggirano disperate alla ricerca di qualsiasi cosa da procurarsi con qualsiasi mezzo purché consenta loro di tirare avanti. “Perché sopravvivere è quel che conta in questa disfatta”, proclama uno dei protagonisti. E’ l’anno zero della Germania, è Berlino ritratta nell’estate del 1947, ma potrebbe essere Amburgo, Colonia o Dresda, la città simbolo dell’apocalisse che distrusse la Vecchia Europa, l’apice di una furia resa insensata dalla vendetta, ebbra di sangue e distruzione. Roberto Rossellini s’immerge in quell’atmosfera di morte senza resurrezione, le rovine non sono quinte per uno scenario dell’orrore, bensì protagoniste con le quali s’intrecciano le terribili storie del piccolo Edmund, che s’uccide gettandosi da quel che resta di una casa, del fratello reduce della Wehrmacht che si nasconde alla polizia, della sorella Eva che va con i vincitori, del padre malato, di una coppia di pedofili: Enning, maestro di scuola hitleriano e il generale Von Laubniz, uno junker vestito di bianco come un fantasma del passato. I cinefili considerano “Germania anno zero” l’emblema del neorealismo insieme a “Sciuscià”, più ancora del melodrammatico “Roma città aperta”. Un film non per condannare o assolvere, spiega ancora il commento che accompagna le immagini, ma per mostrare la realtà senza veli e gettare così un seme di speranza. 

 

Mai più, si disse. Invece oggi dobbiamo accettare, increduli, inermi, disperati, che sta succedendo di nuovo, che Mariupol diventa la Dresda dei nostri giorni, sulla quale si scatena una furia selvaggia, eccessiva, persino inutile nelle sue dimensioni. Chissà se Vladimir Putin ha mai visto il film di Rossellini; forse sì, forse ha apprezzato l’efficienza implacabile dell’Armata Rossa e ha licenziato un altro dei suoi generali. Chissà se lo conosce Volodomyr Zelenski e magari rifiuta di identificarsi con i protagonisti: né carnefice né vittima, tanto meno perdente lui che non s’arrende. 

 

Berlino è stata ricostruita, così come Amburgo, Colonia e la stessa Dresda. Prendiamo le principali città tedesche perché sono state rase al suolo più di Milano pure bersagliata senza sosta o di Vienna anch’essa coperta di detriti nella più orrenda guerra combattuta finora. Ebbene, oggi chi ricostruirà Mariupol, Karkhiv, Kyiv, Ochtyrka, Zaporizhzia, Mykolaiv e tutte le altre, sperando che anche Odessa e Leopoli non seguano la stessa sorte? I russi se riusciranno a conquistarle o gli ucraini se saranno in grado di salvare quel che ne resta respingendo gli invasori? Nessuno è in grado di capire come volge il conflitto. Diffidiamo delle opposte propagande, non sappiamo cosa accade davvero o meglio abbiamo davanti agli occhi tanti spezzoni, tante tessere senza essere in grado di comporre il mosaico. Ancor meno riusciamo a penetrare quei piccoli occhi di ghiaccio che affiorano immobili e affilati tra gli zigomi gonfi (botox, cortisone, semplice grasso?), le feritoie di Zar Vlad. Mariupol è ormai una città invisibile, a coloro che verranno possiamo solo raccontare un’epopea di resistenza, ma speriamo di narrare anche storie di ricostruzione; intanto promettiamo che sulle macerie della “Città di Maria” non verrà versato il sale. 

 

A Berlino le tribolazioni non cessarono con l’anno zero. La capitale geograficamente finì nel territorio liberato e occupato dall’Armata Rossa. Non potendo spostarla vennero spostati i confini. Era un detto con il quale Stalin giustificò l’invasione della Finlandia in quella che venne chiamata la guerra d’inverno combattuta tra il 30 novembre 1939 e il 12 marzo 1940. “Noi non possiamo cambiare la geografia, né lo potete voi. Siccome Leningrado non può essere trasportata via, la frontiera deve essere spostata più lontano”, proclamò il dittatore sovietico che si sentiva minacciato nonostante si fosse spartito con Hitler la Polonia e le Repubbliche baltiche. La Germania sconfitta venne divisa in due e così anche Berlino: all’ovest Stati Uniti, Inghilterra, Francia, a est l’Unione sovietica. Il muro non c’era ancora, ma c’erano già due città che assunsero presto due volti ben distinti e li conservano ancora, nonostante tutti i cambiamenti avvenuti in questi anni che ci separano dal 1989. Lo si vede nella struttura dei palazzi e delle strade, ma lo si sente anche nell’atmosfera e nella cultura urbana, ci vuole più di una generazione per rimarginare ferite tanto profonde. Per ben quattro decenni sono vissute l’una accanto all’altra, di là la capitale della Germania comunista teatro di drammi umani, cimitero della libertà negata e desiderata fino a rischiare la propria vita, di qua la bandiera dell’occidente conficcata in terra nemica, entrambe crogioli di spie, palestre di giochi crudeli. Ora l’abbiamo dimenticato, ma chi non è più giovane ricorda John Fitzgerald Kennedy pronunciare nel 1963 in un tedesco zoppicante “Ich bin ein Berliner”. Chissà chi dirà, magari senza avventure linguistiche, “anch’io sono di Mariupol”.

 

Con la caduta del Muro si pone un problema che non è solo urbanistico, o meglio si chiede agli urbanisti di risolvere un problema storico e politico, cioè ricucire il tessuto strappato. Potsdamer Platz è il centro della frattura. Ai primi del secolo scorso era un crocevia cosmopolita, attraversato già nel 1908 da ben 35 linee tranviarie, terminale delle più importanti ferrovie nazionali e internazionali. I caffè resi celebri dai racconti letterari, i ristoranti e gli alberghi sempre affollati, il traffico così intenso e caotico da far collocare proprio in quella piazza il primo semaforo d’Europa. Nel 1961 viene eretto il muro voluto dal leader comunista Walter Ulbricht. Restano ad est Unter den Linden il celebre viale dei tigli e l’isola dei musei, due vere perle della città. A ovest viene costruito il Kulturforum con la galleria nazionale, la biblioteca di stato, la filarmonica. Si crea così una barriera architettonica che sancisce la divisione per un tempo che allora tutti consideravano molto lungo, se non infinito certo indeterminato. Dopo il 1989 così il problema diventa come ricomporre quel che la guerra fredda aveva spezzato. E’ Renzo Piano che nel 1991 vince il concorso per ripensare e ricostruire Potsdamer Platz. Nasce lì la nuova città, rinasce lì la capitale della nuova Germania. 

 

 

A Colonia, dove nacque Agrippina, uno dei primi centri renani a diventare cristiani, era rimasto in piedi il possente Duomo costruito a partire dal 1248. La rinascita si deve a Konrad Adenauer, borgomastro fino all’avvento del nazismo e poi cancelliere della Repubblica federale, principale ispiratore della Costituzione che ha recuperato le istituzioni democratiche e i valori della repubblica di Weimar, una città finita anch’essa sotto il tallone sovietico. 

 

La nuova vecchia Dresda si deve a un italiano del Settecento, Bernardo Bellotto, che arrivò attirato dalla fama di quella che sarà chiamata “l’Atene del Nord”, aveva 26 anni e vi rimase per due decenni, divenne pittore di corte, ottenne lodi, denari e onori e si specializzò in vedute urbane: così come  Antonio Canal a Venezia e a Londra, riusciva a riprodurre con una precisione che oggi chiamiamo fotografica strade e canali, palazzi e parchi. I suoi quadri sono rimasti in bella mostra per un paio di secoli e vennero messi al sicuro quando cominciarono a piovere le bombe della Raf. Recuperate nel Dopoguerra, quelle tele sono diventate il modello per rifare Dresda com’era, o meglio com’era stata due secoli prima. Una finzione, un racconto di Italo Calvino, certo mille volte meglio della Casa dei Soviet che domina il centro di Königsberg, oltre tutto rimasta incompiuta.

 

Per vedere com’era Mariupol non c’è bisogno di un Bellotto, anche se potrebbe farle perdere la fuligginosa impronta sovietica. Belle foto del recente passato circolano su internet, vengono spesso rilanciate sugli schermi televisivi a cominciare dal teatro prima del bombardamento. Cominciamo con il ricordare che i russi con la città c’entrano fino a un certo punto. Il toponimo è dovuto ai greci che venivano dalla Crimea allora, nel Secondo secolo avanti Cristo, nelle mani di Mitridate il Grande, re del Ponto. Gli slavi dovevano ancora arrivare tanto meno i russi, preceduti dai tartari e dai cosacchi,  i quali vennero spodestati da Caterina II durante la sua spietata guerra contro le rivolte contadine – famosa quella che vide come eroico e sfortunato protagonista Emel’jan Ivanovič Pugačëv, pretendente al trono sotto le sembianze di Pietro III. La sua storia ha ispirato il romanzo di Aleksandr Sergeevič Puškin “La figlia del capitano”. In quegli anni, esattamente nel 1778, venne fondata la città sulle sponde del mar d’Azov, con il nome di Pavlovs’k diventato Mariupol in onore di Marija Fëdorovna, moglie del principe ereditario Paolo, la quale in realtà si chiamava Sofia Dorotea di Württemberg ed era tedesca come Sofia Federica Augusta di Anhalt-Zerbst diventata la zarina Caterina. Con buona pace degli slavofili, l’occidente europeo è intrecciato indissolubilmente alla storia dell’est e della Russia. Dunque, Mariupol portava sul suo volto urbano lo stile del barocco germanico e del neoclassicismo tra Sette e Ottocento, poi quello un po’ pompier che ha dominato il continente a est e a ovest sulle orme di Napoleone III e del prefetto Huysmans. L’impronta sovietica s’era impressa in periferia non tanto in centro; al contrario di quel che è successo a Berlino est, lo spirito fin de siècle è aleggiato per tutto il Novecento. 

 

Proiettiamoci in un futuro possibile, immaginiamo che i russi si ritirino dopo aver spostato i confini, imitando Stalin e strappando brandelli di territorio. Chi e come rimetterà in piedi quel che resta dell’Ucraina? Ci vorranno capitali dall’Europa occidentale tanto più se Kyiv chiederà di entrare nella Ue. Un processo lungo, prima la ricostruzione, poi le riforme per modernizzare una economia rimasta in bilico tra il modello sovietico e quello degli oligarchi e per consolidare istituzioni democratiche traballanti. Guai se nasce una nuova Ungheria. I capitali ci sono, non c’è bisogno di mega operazioni tipo piano Marshall (il prodotto lordo di un paese da 40 milioni di abitanti ammonta a soli 150 miliardi di euro) e ci sono anche i costruttori, spesso quegli stessi che a partire dagli anni Novanta hanno contribuito a rifare il trucco a Mosca. Strade, ferrovie, aeroporti, ospedali, scuole c’è bisogno di tutto nelle città ucraine martellate dai missili russi. In Francia ci sono colossi come Vinci o Bouygues, in Spagna Acs, in Svezia Skanska, in Italia Webuild, tutti in grado di tirar su ponti e grattacieli. Anche in Russia esistono colossi delle costruzioni che potrebbero trovare vantaggioso intervenire nelle terre del Donbas lacerate dalla guerra civile e ora dall’intervento russo, anche se nel cinico mondo degli affari a far gola è il sud più ricco e attraente, quello bagnato dal mare e ricco di risorse non sfruttate. Ma cosa investirà Mosca, rubli senza valore? Costruirà un muro per dividere i territori occupati (liberati seconda Zar Vlad) dal resto dell’Ucraina e li riempirà di deportati siberiani seguendo anche in questo le orme dei suoi autocrati di riferimento? La Russia ha edificato negli ultimi vent’anni edifici imponenti e importanti, stadi, centri commerciali e strutture culturali, anche grazie al sostegno tecnologico, progettuale e produttivo delle imprese europee le quali lo hanno trovato conveniente, però in qualche modo seguivano l’utopia del mercato aperto, di un mondo in cui i giochi degli scambi avevano sostituito i giochi di guerra, la competizione per il benessere aveva preso il posto del conflitto per il dominio. Un mondo scosso già dal terrorismo islamico in quel fatale 11 settembre 2001, ma al quale l’invasione dell’Ucraina ha inferto un colpo dal quale sarà difficile riprendersi.

 

C’è poi una domanda che pochi hanno finora posto in modo chiaro e netto: chi deve pagare le riparazioni? In punta di diritto chi ha provocato la guerra, così è sempre stato, ma sappiamo che ha sempre alimentato le peggiori reazioni revansciste. Anders Åslund, studioso della Russia e membro dello Stockholm Free World Forum, non ha dubbi su chi deve sopportare l’onere finanziario e ha fatto i conti su come e quanto. Le prime valutazioni sono approssimative: cento miliardi di dollari stima Oleg Ustenko, consigliere economico di Volodymyr Zelensky; il Vienna Institute for International Economic Studies calcola che ci vorranno 22 miliardi di dollari solo per il Donbass, mentre presso la corte arbitrale permanente dell’Aja c’è una richiesta di dieci miliardi depositata dalle imprese ucraine. Ebbene, il G7 ha congelato le riserve estere russe pari a circa 400 miliardi di dollari, potrebbero essere confiscate e girate a una Autorità ucraina per lo sviluppo costituita insieme al Fondo monetario, alla Banca mondiale, alla Banca europea per gli investimenti, l’Onu, sotto la garanzia dell’America, dell’Ue, del Canada e della Gran Bretagna. Sarebbe questo lo strumento per finanziare la ricostruzione. Non trasferimenti a pioggia, né tanto meno regalie. Anders Åslund ricorda il caos economico che ha caratterizzato l’Ucraina prima e dopo la rivoluzione arancione ed Euromaidan, rivolte innescate anche dalla diffusa corruzione e dallo sperpero di denaro pubblico finito nelle tasche di speculatori e oligarchi locali. Quindi gli interventi andrebbero condizionati a profonde trasformazioni economiche,  sociali, istituzionali. Il modello è il Next Generation Eu più che i salvataggi del Fondo monetario. Il piano è ingegnoso, potrebbe funzionare solo dopo una chiara sconfitta di Putin, ma anche allora sarebbe duro da digerire. Le conseguenze economiche della pace potrebbero innescare un’altra guerra, come scrisse John Maynard Keynes a proposito della Germania dopo il Trattato di Versailles nel 1919. Che la storia questa volta non si ripeta.

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