Bucha e gli altri massacri: il nostro “mai più” era una bugia
Il metodo Putin lo conosciamo: finisce con i progetti criminali e genocidiari. Bucha è solo l’inizio, non è una strage incidentale. O il danno collaterale della guerra. Ecco perché non possiamo più prenderci in giro
Le testimonianze dei sopravvissuti di Bucha, le immagini dei cadaveri con le mani legate, carbonizzati e con colpi sparati a pochissima distanza hanno sconvolto il mondo, fanno dire a Joe Biden che Vladimir Putin non può più restare al potere, mobilitano la diplomazia, impongono ai commentatori di dire: non possiamo ignorare quel che è accaduto, non possiamo voltare lo sguardo altrove. Ma sappiamo che il massacro di Bucha è solo l’inizio, e che quando volteremo lo sguardo altrove, perché lo faremo, troveremo altra violenza: Bucha non è un’eccezione, non è una strage incidentale, il danno collaterale della guerra: è un metodo. Non sappiamo ancora che cosa troveremo a Mariupol, la città martire per cui piangiamo da settimane, e non sappiamo nemmeno se sapremo che crimini sono stati commessi, perché Mariupol si sta arrendendo ai russi e farà parte di quei pezzi di terra ulteriore che Putin considererà suoi, e che difficilmente potranno essere ripresi indietro, non finché al Cremlino ci sarà lui. Non sappiamo i dettagli, non vediamo le facce dei sopravvissuti, non sentiamo le loro voci perché l’accesso ci è negato, ma sappiamo che il metodo Putin è stato applicato anche lì, come in tutti i posti, piccoli e grandi, che hanno subìto l’attacco delle forze russe.
Già prima della resa, fino al 15 marzo cioè fino a quando due giornalisti dell’Ap sono rimasti a Mariupol, i racconti erano strazianti: ora lo saranno di più. E non ci sono città martiri più di altre, non ci sono graduatorie di sacrifici: la denazificazione voluta da Mosca segue un paradigma molto preciso che ci è noto dall’inizio, da quando abbiamo paragonato le città ucraine a Grozny o ad Aleppo. Bombe, fame, esecuzioni sommarie, stupri, saccheggi, corridoi umanitari che sono corridoi per la deportazione: questo è il paradigma.
Quando è iniziata l’invasione russa, l’occidente ha scelto di non intervenire militarmente a sostegno dell’Ucraina per non dare a Putin alcun pretesto, perché ci manda l’atomica!, come se i contorni del progetto genocidiario (ora i russi parlano di de-ucrainizzazione dell’Ucraina) di Mosca potessero essere fraintesi. Ci siamo però detti che avremmo dato tutto il sostegno umanitario possibile e che avremmo reso, attraverso le sanzioni, il costo della guerra insostenibile per Putin. Le armi occidentali sono arrivate così come le sanzioni-senza-precedenti sono state introdotte. Ma il sostegno umanitario dentro all’Ucraina non è arrivato: lo hanno impedito i russi, certo, ma questo fa parte del metodo Putin, e lo sapevamo.
Il principio che ha dominato il dibattito nella gestione dei conflitti dagli anni Novanta è quello della “responsabilità di proteggere” i popoli e si fondava sulla lezione imparata qualche anno fa (è una lezione ben più antica in realtà) dal genocidio in Ruanda: “Mai più”. Le cosiddette (e malfamate) guerre preventive contro le dittature si basavano su questo mandato: non vogliamo che accada mai più, sotto ai nostri occhi inermi e calcolatori, un progetto criminale e genocidiario. I realisti dicono che bisogna mettere in conto i massacri come prezzo da pagare per evitare escalation militari non convenzionali, ma allora delle due l’una: o sapevamo che cosa avremmo trovato a Bucha e altrove e abbiamo deciso comunque di non fare nulla o “mai più” era una bugia.