Dal Perù allo Sri Lanka. Il fallimento parallelo di due economie
Le proteste popolari stanno mettendo in crisi governi di sinistra, andati al potere non molto tempo fa con grandi promesse di rinnovamento
Si trovano da parti opposte del mondo, Perù e Sri Lanka. Ma in entrambe una violenta protesta popolare sta mettendo in crisi governi di sinistra, andati al potere non molto tempo fa con grandi promesse di rinnovamento. E soprattutto con un sottinteso, se non proprio dichiarazioni ufficiali, di abbandono del tradizionale “modello occidentale” in favore di più facili amicizie con autocrazie influenti. Pedro Castillo, insegnante rurale e sindacalista famoso per il cappello da cowboy, è presidente del Perù dal 28 luglio del 2020. Mahinda Rajapaksa è primo ministro dello Sri Lanka dal 21 novembre 2019, dopo essere stato nominato da suo fratello Gotabaya, che si era insediato alla presidenza tre giorni prima;e la sua alleanza di 17 partiti (compresi il comunista e il trotzkysta) ha poi stravinto le elezioni del 5 agosto 2020, prendendo 145 dei 225 seggi in Parlamento.
Sin dall’inizio delle proteste popolari, in Perù ci sono stati già cinque morti. Castillo ha provato a dichiarare il coprifuoco nella capitale Lima e nel porto del Callao per venirne a capo, ma centinaia di persone sono scese in piazza proprio al momento in cui scattava. E’ iniziata il 28 gennaio scorso, come sciopero di camionisti contro l’aumento del prezzo dei combustibili. Una motivazione, il prezzo dei trasporti, che troviamo in molte proteste degli ultimi anni, con governi di tutti i colori e per tutto il pianeta: dal Cile di Piñera al Kazakistan passando per l’Ecuador, dal Brasile di Dilma Rousseff alla Francia di Macron. Ma subito si è aggiunto il malcontento contro l’aumento record del prezzo della vita: il +1,48 per cento nel mese di marzo, massimo da 26 anni. E poi la più generale delusione per un presidente che in nove mesi ha già dovuto cambiare quattro primi ministri e affrontare due tentativi impeachment.
Il Perù è già di per sé storicamente instabile, e sia il Covid sia la guerra in Ucraina hanno strascichi di cui Castillo non ha colpe dirette. Però la protesta per la gestione della pandemia aveva pompato la sua vittoria proprio in quanto candidato più radicale. Castillo per trovare una soluzione alla crisi ha sospeso fino a giugno l’imposta selettiva al consumo di carburante e ha pure aumentato il salario minimo del 10 per cento, ma in un paese con l’80 per cento di lavoratori informali l’impatto è stato minimo, e la protesta continua. A far crollare la popolarità del presidente, anche le pesanti accuse di corruzione a due suoi nipoti e all’ex segretario.
Inflazione record al 17,5 per cento e corruzione si ritrovano pure nel cocktail che ha acceso la protesta nello Sri Lanka. Ma in più c’è l’energia razionata, con 13 ore al buio e i semafori spenti. E il ruolo del clan Rajapaksa: assieme al presidente ex ministro della Difesa e al premier ex presidente c’è il terzo fratello Basil: deputato e ministro delle Finanze nel governo che ha appena dato le dimissioni, come il presidente della Banca centrale. E il figlio di Mahinda, Namal: ministro dello Sport. E poi altri sei esponenti, in vari gangli della vita pubblica. Per pomparsi al potere hanno tagliato drasticamente le tasse mentre facevano crescere a dismisura il debito, ora arrivato a 51 miliardi dollari. Attenzione: non con Troike occidentali, ma con Cina e India, che non erano indicate come potenze neocoloniali. Pechino si è così presa la concessione di un enorme porto ed ha appena concesso un altro miliardo e mezzo di dollari, cui l’India ha risposto prestando a sua volta somma equivalente. Ma ormai è una situazione di trappola del debito, con solo 2,31 miliardi in cassa, e 7 miliardi da rimborsare sempre quest’anno. Sempre in chiave “progressista” un bando dei fertilizzanti chimici, che ha fatto crollare i raccolti, e fatto in compenso lievitare il debito con la Cina, fornitrice dei concimi organici.
Con turismo e rimesse crollati per la pandemia, lo Sri Lanka si è ritrovato letteralmente senza soldi. Ma i Rajapaksa non mollano, e piuttosto ricorrono a una repressione che prevede stato di emergenza, coprifuoco e anche il blocco dei social network. Come in Perù, però, la gente protesta lo stesso, anche col coprifuoco, e ai gas e agli idranti della polizia risponde a sassate.