(foto di Ansa)

Sul fronte

Così cambia la guerra dei russi in Ucraina

Cecilia Sala

Per “liberare il Donbas” le truppe di Mosca ora sono meglio attrezzate, ma hanno ancora un guaio con i numeri

Ora la guerra in Ucraina entra in una nuova fase e si vedranno i primi effetti della “nuova strategia” con cui Mosca decide di concentrare tutta la propria forza militare in Donbas. Le ipotesi sono due, la prima: l’esercito ucraino ci sorprende, le sue capacità superano le aspettative di tutti e anche quelle del Pentagono (è già successo una volta, molte delle previsioni degli americani erano corrette ma non quella secondo cui Kyiv sarebbe caduta in quarantotto o settantadue ore), in questo scenario i russi non riescono a prendere il sopravvento nell’est e finiscono di nuovo in stallo. Nella seconda ipotesi i russi hanno imparato dai propri errori e ne hanno corretti alcuni: arrivano preparati, riorganizzati e meglio equipaggiati, non devono coordinare un’invasione totale nel paese più grande d’Europa ma concentrarsi solo su una zona che è anche quella dove hanno già ottenuto i maggiori successi sul campo, quindi hanno una piattaforma più solida da cui lanciare i nuovi attacchi e partono in vantaggio. 

 

Comunque vada il secondo capitolo di questa guerra che la propaganda di Putin chiama “liberazione del Donbas”, è una fase in cui sentiremo parlare meno dei successi della resistenza e delle operazioni goffe dell’esercito russo, e in cui i soldati di Putin ci sembreranno più forti. Il loro principale problema da quando è cominciata l’invasione è stato la logistica. Le autobotti per trasportare l’acqua e la benzina rimanevano impantanate come i camion con le cucine mobili e i kit medici, mentre gli agguati ucraini tagliavano le linee di rifornimento lasciando i soldati di Mosca schierati nelle prime posizioni a combattere a stomaco vuoto e con il serbatoio scarico. Con la guerra che si sposta in Donbas queste linee logistiche si accorciano e sono più facili da gestire, soprattutto perché passano attraverso un territorio che i russi controllano, qualcosa che non è mai davvero avvenuto nei dintorni di Kyiv e anche per questo il tentativo di accerchiare la capitale – il piano A – è fallito. A est, a ovest e a nord di Kyiv avevano conquistato alcuni villaggi a macchia di leopardo e avevano il controllo di alcune strade ma non dello spazio circostante: erano scoperti su più lati e questo ha rese possibili le continue incursioni degli ucraini. 

 

L’occupazione russa a sud-est è più compatta e i soldati di Mosca sono meno esposti a quel tipo di operazioni che spiegano gran parte dei successi ottenuti fin qui dalla resistenza. Cioè gli agguati della fanteria leggera con i missili anticarro in spalla – i Javelin e gli Nlow – e poi gli attacchi con i droni che gli ucraini hanno usato in modo efficace sia per far esplodere parti delle colonne di mezzi russi sia per vedere più da vicino la situazione e poi colpire con l’artiglieria in modo molto preciso. In questa nuova fase Mosca è in vantaggio anche perché può permettersi di scegliere il fronte in cui combattere, mentre gli ucraini non possono lasciare troppo scoperto il resto del territorio e tantomeno il nord della capitale (sarebbe come consigliare a Putin di tornare al piano A). Il Foglio ha parlato con un colonnello ucraino: “A Mosca sono confusi, è evidente che la strategia dell’est non doveva essere un ripiego ma il piano A. Alcuni di noi avrebbero potuto pensare che questa era davvero una guerra per il Donbas, loro avrebbero potuto sfruttare l’effetto sorpresa che in parte all’inizio c’è stato e che oggi non esiste più. La capitale sarebbe rimasta più scoperta e un blitz  – come mossa successiva – sarebbe stato meno impossibile. I russi non hanno soltanto enormi problemi pratici sul campo e soldati diciottenni spaventati e inadeguati, i vertici hanno una strategia stupida o non ce l’hanno proprio”.

 

 

Il vantaggio dei russi – con lo spostamento a est – resta. Ma i problemi di Mosca dopo il cambio di strategia non sono finiti: la logistica e il coordinamento saranno più semplici, però c’è ancora la questione dei numeri. Dopo settimane di assedio e bombardamenti gli ucraini sono ancora in grado di usare un corridoio molto stretto per rifornire i loro soldati dentro Mariupol, in Donbas, e secondo diversi analisti militari tra cui Phillips O’Brien – che insegna Studi strategici alla Saint Andrews – questa è l’ennesima dimostrazione che “i russi non hanno abbastanza uomini per fare tutto quello che vogliono fare”. Neanche per sigillare la città su cui insistono da più tempo e su cui hanno scaricato tutta la loro violenza. Un altro esempio sono le ventiquattromila truppe che Mosca ha ritirato dal nord e spostato in Bielorussia: sono frustrate ed esauste, avrebbero bisogno di settimane prima di essere di nuovo pronte a combattere. Ma Putin vuole riposizionarle il prima possibile e sempre secondo O’Brien questa fretta “è la prova che sono disperati”. Quei soldati sono stremati e hanno il morale a terra, ma non c’è tempo di rimetterli in sesto perché il Cremlino non si fida di tutti i reparti delle proprie Forze armate e il bacino da cui può attingere per mandare uomini in Ucraina è in realtà piuttosto limitato.

 

Per esempio nella Guardia nazionale e nella polizia antisommossa ci sono troppi casi di dimissioni per scampare la guerra e tra i giovani in età da leva ci sono quelli che compiono atti di autolesionismo per non essere chiamati. Ancora secondo O’Brien, ci sono unità e interi corpi che per il Cremlino non sono affidabili e in guerra non combatterebbero seriamente: il risultato finale è che i soldati a disposizione di Putin sono meno di quanto dicono i numeri ufficiali. Poi ci sono le cifre spaventose di morti e feriti (adesso anche Mosca ammette che sono alte, ma non fornisce dettagli): significano, da una parte, meno forze sul campo e, dall’altra, che oggi trovare gente motivata a combattere in Russia è più difficile di quanto fosse il 24 febbraio quando Putin ha dato l’ordine di invadere. I battle group (le unità di uomini e mezzi in cui sono organizzate le Forze armate russe) a disposizione in questo momento in Ucraina sono ottanta, cioè quaranta in meno rispetto alla fine di febbraio. 

 

In previsione di questa nuova fase della guerra Joe Biden la settimana scorsa ha fatto una cosa che, all’inizio, sembrava escludere: ha parlato di pacchetti di aiuti militari dove a dominare l’elenco sono le armi di tipo offensivo e non più quelle di tipo difensivo. La distinzione in realtà è sottile ma nel caso specifico significa: mandiamo i carri armati e non solo i missili anticarro. Questa volta dal momento dell’annuncio a quando è arrivata la conferma che i primi carri T-72 sono arrivati sul territorio ucraino (per il momento in quantità simbolica) sono passati solo tre giorni, e questa rapidità è una novità. Anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg  ha detto che ormai “la distinzione tra armi offensive e difensive ha poco senso”. Se la retorica in proposito è cambiata – e si parla di aerei caccia e di armi pesanti da consegnare a Zelensky il prima possibile – è perché gli occidentali sanno che se i russi non vengono fermati adesso che hanno aggiustato il tiro, le occasioni per farlo in futuro potrebbero non esserci. La nuova strategia di Mosca non è definitiva: gli ucraini, Stoltenberg e gli americani non credono che Putin abbia rinunciato a Kyiv, ma solo rimandato l’operazione di qualche mese o di qualche anno. Dipenderà da come si mettono le cose sul terreno in Donbas e mandare le armi serve a evitare che Putin, domani, sia pronto a prendersi tutto.

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