Le parole giuste
Biden parla di genocidio in Ucraina, Macron frena. Sono i dettagli linguistici della guerra
Sul significato della parola "genocidio", per come la pensò il giurista Raphael Lemkin osservando quello degli armeni. Il caso dell'Ucraina
“Sì, l’ho chiamato genocidio”, insiste Joe Biden sull’Ucraina. “Quello che sta succedendo è di una brutalità senza precedenti, ma non sono sicuro che l’escalation delle parole serva alla causa”, smorza Emmanuel Macron. “La Russia parla di soluzione finale, l’invasione è diretta a distruggere il popolo dell’Ucraina ed è per questo che assomiglia a quello che i nazisti fecero al popolo ebraico durante la Shoah”, aveva detto Zelensky alla Knesset, suscitando le reazioni del ministro della Comunicazioni Yoaz Hendel: “La guerra è tremenda ma il paragone con gli orrori della Shoah e la soluzione finale è oltraggioso”. Ovviamente il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, parla di definizione “inaccettabile”. Ma Putin a sua volta in Bielorussia è tornato sul concetto che la Russia non poteva tollerare “il genocidio nel Donbass”.
Il primo a usare quella parola fu, nel 1944, Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica che aveva studiato il genocidio armeno. La usò in un libro dedicato al governo dell’Asse nell’Europa occupata. Si riferiva agli ebrei, ma aveva presente il precedente armeno. Il 9 dicembre del 1948 l’Onu, con la risoluzione 260 A (III), adottò una Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, definito così: “Uno dei seguenti atti effettuato con l’intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: uccidere membri del gruppo; causare seri danni fisici o mentali a membri del gruppo; influenzare deliberatamente le condizioni di vita del gruppo con lo scopo di portare alla sua distruzione fisica totale o parziale; imporre misure tese a prevenire le nascite all’interno del gruppo; trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo”.
Poi però il termine “genocidio” è diventato politico, ed è stato adottato per diverse situazioni: un’inflazione che evidentemente finisce per svilire il significato del termine, soprattutto quando di genocidio viene accusata Israele. C’è però una tendenza anche di una parte del mondo ebraico a parlare di unicità dell’Olocausto, che rischia di dimenticare come lo stesso Lemkin avesse in mente gli armeni. E la terminologia stretta della Convenzione non permetterebbe di parlare di genocidio per la Cambogia degli khmer rossi o per il Grande Terrore staliniano, dove vennero sterminate non etnie ma classi sociali.
Con la costituzione del Tribunale internazionale per la Cambogia, però, anche il Diritto internazionale ha accettato di fatto la definizione proposta dall’olandese Pieter N. Drost: “Genocidio è la distruzione fisica intenzionale degli esseri umani in ragione della loro appartenenza a una qualunque collettività umana”. La gran parte degli studiosi oggi accetta anche l’idea dell’americano Irving Louis Horowitz sul ruolo chiave della burocrazia: “E’ genocidio la distruzione strutturale e sistematica di persone innocenti”. Se non c’è stata di mezzo una programmazione sistematica da parte di un apparato statuale moderno, non si potrebbe dunque parlare di un genocidio in senso stretto. Per questo la tassonomia elaborata dal francese Yves Ternon distingue. Da una parte i quattro genocidi: ebrei e zingari sotto il nazismo, poi armeni e cambogiani. Dall’altra i massacri genocidari: Bosnia, Ruanda e tutto ciò che è avvenuto prima del 1915. E in mezzo l’Unione sovietica, per cui propone la categoria intermedia di democidio.
Lo stesso Lemkin, però, aveva definito una particolare categoria culturale, da lui definita “vandalismo”. Il termine è stato poi sviluppato nel concetto di “genocidio culturale”, che fu incluso nel 1994 in una bozza della dichiarazione Onu sui diritti delle popolazioni indigene. Nella versione definitiva rimase solo “genocidio”, ma questo iter attesta che anche il “genocidio culturale” potrebbe essere compreso nella definizione. Sicuramente, l’intenzione reiterata di Putin di non riconoscere l’identità ucraina potrebbe rientrare in questa definizione.