I volontari dei White Helmets salvano un bambino dalle macerie dopo un bombardamento vicino ad Aleppo (foto al Halbi, Afp, WordPress)

Il manuale di aiuto agli ucraini di chi i russi li combatte da anni

Luca Gambardella

Intervista al capo dei White Helmets, il corpo di primo soccorso siriano che spiega come difendersi dalle armi di Putin

Nell’estate del 2012 girava sui social una vignetta. Ritraeva Barack Obama che bussava a una porta da cui compariva il presidente siriano Bashar al Assad con in mano un’ascia e indosso un grembiule, entrambi sporchi di sangue. Sullo sfondo c’erano i corpi che aveva appena fatto a pezzi. Con sguardo severo, Obama si rivolge ad Assad e gli dice: “Volevo solo assicurarmi che non stessi usando armi chimiche”. In quelle settimane il presidente americano aveva appena dichiarato che gli Stati Uniti erano stati “molto chiari con il regime di Assad. Per noi una linea rossa da non superare sarebbe l’uso massiccio di armi chimiche”.

 

La dottrina della “red line” in Siria fu uno dei momenti più difficili della presidenza Obama. Se da un lato voleva mostrare che Assad sarebbe stato considerato l’unico responsabile per l’uso di armi non convenzionali contro i civili, dall’altro toccava fargli notare che nel frattempo i siriani venivano uccisi anche con altri mezzi. E comunque la linea rossa fu superata, e non ci fu la risposta severa che era stata annunciata. Il bilancio, dopo undici anni di guerra, dice che Assad è  al suo posto, non è ancora stato giudicato da un giudice per gli 85 attacchi sferrati con armi chimiche in appena cinque anni e documentati da Human Rights Watch (sono cinque invece quelli provati finora dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) e anzi sta avviando un processo di normalizzazione della sua immagine anche fuori dal paese. Come suoi fedeli alleati nel reprimere ogni forma di opposizione si sono schierati i russi. La loro campagna militare dall’alto ha ucciso negli ultimi tre anni centinaia di persone e continua ancora adesso, parallela alla guerra in Ucraina. Appena pochi giorni fa, il 4 aprile, nel villaggio di Maret Nassan a est di Idlib, un bombardamento russo ha ucciso quattro bambini mentre tornavano a casa dopo la scuola. In tutti questi anni di guerra, a testimoniare questo attacco come tantissimi altri, c’erano i video girati dai White Helmets, l’organizzazione di primo soccorso siriana diventata celebre per le sue operazioni di salvataggio dei civili rimasti vittime dei bombardamenti del regime e dei russi.

 

   

Oggi, ucraini e siriani sono fratelli in armi contro la guerra di Vladimir Putin, dice al Foglio Raed al Saleh, presidente del Caschi bianchi: “In Ucraina si sta delineando uno scenario identico. Il massacro di Bucha, il bombardamento del teatro di Mariupol dove i civili cercavano rifugio, l’attacco all’ospedale pediatrico della città, quello alla stazione dei treni di Kramatorsk mentre le persone tentavano la fuga. Tutto dimostra che la Siria è stata il banco di prova per le armi e le tattiche dei russi”. Queste “tattiche” sono quanto di più spregiudicato si possa immaginare. “Quando i russi attaccano le aree residenziali molte persone rimangono sotto le macerie e i sopravvissuti, ma anche i nostri soccorritori, tornano per cercare di recuperare i feriti. Così gli aerei russi e siriani attaccano una seconda volta, per massimizzare il numero delle vittime. In gergo si chiamano ‘double tap attack’ (attacchi a doppio tocco, ndr). Sono stati 295 i volontari uccisi in questo modo, altri 900 i feriti”. 

 

Le operazioni di salvataggio dei volontari dei Caschi bianchi non si “limitavano” a recuperare i superstiti. La loro è stata un’operazione più ampia di raccolta di informazioni e testimonianze dirette su come, dove e contro chi si scagliavano gli attacchi del regime coadiuvato dai russi. “Nel caso ucraino, Mosca ha sempre tentato di smarcarsi dalle sue responsabilità, prima accusando le forze di Kyiv di commettere crimini orrendi contro il loro stesso popolo, poi accusandole di usare i civili come scudi umani”, dice al Saleh. “Queste accuse infamanti sono parte integrante di un modello ricorrente già applicato in Siria, fatto di disinformazione strategica e propaganda diffuse dai media di stato russi per generare confusione nella comunità internazionale, per indurla a un punto di paralisi e inazione”. 

 

Documentare i crimini di guerra in Siria è per i Caschi bianchi un’attività essenziale tanto quanto salvare vite umane. Le uniche armi usate sono telecamere GoPro e walkie-talkie, preferiti agli smartphone perché più difficilmente intercettabili dai russi. Qualche giorno fa, hanno girato un video tutorial specifico per i loro colleghi ucraini, una specie di manuale  in cui si mostra come intervenire dopo un bombardamento per recuperare i feriti. Si spiega anche perché è necessario che i soccorritori documentino le loro azioni di salvataggio. Il motivo è che il corpo dei Caschi bianchi in Siria è stato obiettivo di una campagna di disinformazione russa volta a screditarli. Per anni, era girata sui social network la storia che il corpo altro non fosse che una propaggine di al Qaida e dello Stato islamico, finanziata dal Qatar. In realtà ricevono denaro da tutto il mondo e hanno sempre operato in ogni zona di guerra  – comprese quelle degli islamisti. 

  

Oggi, il tema della “linea rossa” da non superare, dell’uso di armi chimiche e dei crimini di guerra è ricorrente anche in Ucraina. Negli ultimi giorni si è parlato del possibile impiego di armi al fosforo a Mariupol. Per al Saleh, “ogni arma usata contro i civili, a prescindere dal suo genere, merita una reazione urgente da parte della comunità  internazionale. Non agire significa dare luce verde alla Russia. Significa permetterle di agire nell’impunità”. Ma portare alla sbarra criminali come Putin o Assad non sarà semplice: “In futuro forse succederà. Ma ogni giorno spunta qualcosa di nuovo che permette a questi criminali di sfuggire alle loro responsabilità”.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.