"seconda fase"

Perchè la Russia da otto anni punta al cuore del Donbas

Il 9 maggio, il giorno della vittoria, si terrà una parata a Mariupol, la città portuale che resiste all'assedio dei soldati russi e soffre

Micol Flammini

La lingua, la ricchezza e la prossimità. Da dove nasce la fissazione di Putin e cosa resterà della regione, che era fiorente, dopo la guerra. Calcoli e previsioni 

La parata del 9 maggio per celebrare la vittoria dell’Armata rossa contro la Germania nazista, quest’anno Vladimir Putin l’avrebbe voluta vedere sfilare a Kyiv: la capitale dell’Ucraina liberata dai nazisti grazie all’operazione speciale lanciata da Mosca il 24 febbraio ma che non ha avuto successo. Da Kyiv le truppe russe si sono ritirate e così anche i piani di Mosca per il giorno della vittoria. Il 9 maggio però si terrà una parata  a Mariupol, la città portuale che resiste all’assedio dei soldati russi e soffre: ieri dal dipartimento di stato americano  hanno fatto sapere che per garantire il passaggio sicuro di civili e soldati feriti dalla città potrebbero essere coinvolti gli alleati della Nato. Mariupol è una città distrutta e sarà una parata tra le macerie. Non sarà Kyiv, ma per la strategia russa è comunque fondamentale: Mariupol è una delle ultime aree urbane di Donetsk, nel Donbas, la regione orientale sulla quale si sta concentrando quella che Mosca chiama la “seconda fase” della guerra. Il Donbas ha una lunga tradizione industriale, con capacità minerarie e siderurgiche pesanti, oltre a grandi riserve di carbone. Vladimir Putin ha incominciato a guardare al Donbas con sempre maggiore insistenza dal 2014, anche perché è la zona in cui si concentra la popolazione russofona e quando l’Ucraina aveva ormai cacciato il suo presidente filorusso, Viktor Yanukovich, il Cremlino vide  nella regione confinante la possibilità di continuare a esercitare la sua influenza sul paese.

 

La Russia ha alimentato le ragioni delle due repubbliche che si sono autoproclamate indipendenti, Donetsk e Luhansk. Le due repubbliche in realtà non si estendono neppure per tutta la superficie delle due oblast omonime, ma sostenendole, il Cremlino è riuscito a mandare avanti un conflitto che è durato per otto anni, togliendo energia all’Ucraina e al Donbas, che è una zona ricca, o meglio lo era, è vicina geograficamente alla Russia e poi è abitata da persone che parlano prevalentemente il russo. Questi erano i tre motivi  per cui Putin si è piantato nella regione, dividendola, sperando di indebolire Kyiv, e ora è tornato a tormentarla. A vederle oggi queste tre ragioni, sembrano molto cambiate. L’unica cosa stabile è la posizione geografica: il Donbas continua a confinare con la Russia. Ma l’attacco di Mosca ha reso il russo sgradito a gran parte della popolazione  e ora alcuni russofoni si sforzano di parlare ucraino.

 

Infine c’è la questione economica: il Donbas rigoglioso non esiste più. Esiste una zona sfinita, distrutta, sfibrata, impoverita. Non è più il cuore industriale del paese, e se l’esercito russo riuscisse davvero a conquistarlo dovrebbe assumersi i costi per  rimettere in piedi un’area devastata. L’economia di Mosca non è sana e non lo sarà a lungo: i soldi per questi lavori non li ha e le probabilità che il Donbas rimarrà senza forze e non riprenderà le attività industriali sono alte. I ricercatori del Center for economic policy research hanno utilizzato i dati sui danni alla proprietà, i dati sullo stock di capitale del paese e le analogie storiche per stimare il costo complessivo di ciò che dovrà essere fatto per aiutare il paese dopo la guerra: 200-500 miliardi di euro. Più la guerra va avanti, più l’economia si contrarrà e i mezzi per fortificarla si fanno più poveri. Le regioni direttamente colpite dal conflitto  rappresentano circa il 29 per cento della produzione ucraina e in quelle aree l’attività economica è più o meno cessata. Il 30 per cento delle imprese in tutto il paese ha smesso di produrre e un altro 45 per cento ha ridotto la  produzione. La Russia non sarà mai in grado di risollevare l’economia del Donbas, ha già abbastanza problemi con la sua. Se riuscirà a prenderlo, avrà conquistato una regione impoverita e senza la possibilità di renderla di nuovo fiorente. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)