Tutti dicono “fuck Putin!”. La meravigliosa ribellione dei privati contro la guerra di Putin
Anche i distratti ora si ribellano al conflitto sanguinario e insensato scatenato dal presidente russo. Il panorama è disseminato di piccoli e grandi gesti di dissociazione
La mobilitazione dei privati per l’Ucraina è stupefacente. Non solo famiglie che ospitano in decine di paesi europei e negli Stati Uniti, non solo contributi in denaro, non solo azione generale di organizzazioni umanitarie sostenute dal volontariato, associazioni cattoliche e di altre confessioni, comitati ad hoc in Europa e in America; per privati si può intendere, a parte le manovre di accerchiamento dell’economia russa da parte dei mercati, non solo finanziari, ogni tipo di soggetto, imprenditori dell’export e dell’import, grandi imprese e medio-piccole, che ha dato e sta dando un appoggio tangibile alla resistenza degli ucraini.
Mentre dal più stupido sistema mediatico del mondo, quello italiano dei piccoli schermi, non tutti ma quasi, sale il fumo della verbosità equidistante, è come se la società civile si fosse rimessa a leggere i giornali di carta, che in generale raccontano e giudicano con estrema circospezione, con amore di esattezza, con sprezzo di ogni pericolo, quello che succede nell’inferno incandescente del paese europeo martoriato a causa della sua indipendenza e del suo slancio.
Il “fuck!” dei Måneskin è arrivato inaspettato, gratuito, un gesto rock contro un esercito distruttivo e lento. Il panorama è però disseminato di piccoli e grandi atti di dissociazione, anche di artisti rétro cui era ed è cara la Federazione russa, loro palcoscenico di riferimento a fine carriera. A leggere le pagine letterarie dei giornali europei e americani si capisce che c’è qualcosa di nuovo sotto il sole. La pace non è più una retorica generica, è azione ed emozione diretta, unificazione delle forze anche intellettuali per arginare la losca progressione, o escalation, di una guerra che non doveva essere combattuta e che può essere sconfitta solo combattendo, ciascuno con le armi che ha.
La naturale russofilia delle classi colte e cosiddette riflessive si sposa a un rigetto pieno delle decisioni del regime putiniano.
Anche chi continua a lavorare con i russi, tramite Turchia e Kazakistan, perché le sanzioni non coprono tutto l’arco della produzione e dell’export, come alcune imprese brianzole, per contrappeso compie azioni di sostegno e accoglienza verso il popolo che geme sotto il massacro delle truppe di aggressione. Nonostante tutto, la comunità occidentale di aiuto e solidarietà è vasta, solida, comprende i singoli e le catene di consumo, i brand esclusivi e le attività economiche più comuni, e per un testimone a favore della stabilità garantita dall’uomo forte a Mosca ce ne sono cento o centomila che si ribellano alla logica di crudeltà e di morte di una guerra europea che nessuno pensava di poter rivedere in atto in questo secolo.
Nessuno può vivere di una mobilitazione spirituale permanente per la pace in ogni dove, e ci sono guerre devastanti, dalla Siria allo Yemen, che non hanno tenuto la scena della solidarietà allo stesso modo, è triste ma normale che sia così. E’ che il teatro di guerra ucraino è per definizione una minaccia mondiale, è il risorgente espansionismo di una ex grande potenza che aveva tenuto appeso il mondo alla sua idea, genuinamente imperialistica, dell’applicazione forzosa ai popoli di una religione del nostro tempo, funesta, il comunismo. Esaurita quella “spinta propulsiva” (E. Berlinguer), criminogena come poche nel secolo dei totalitarismi, e liberata mezza Europa dalla sudditanza ai carri armati, tutti speravano che non se ne sarebbe riparlato più, malgrado le glorie di Stalingrado e le divisioni stabilite a Yalta. Anche i privati, anche i commoner della pace di questi decenni, anche i distratti, anche coloro che non partecipano di norma alla vita pubblica, hanno capito che con quei confini violati era stata violata la loro libertà. E hanno reagito.