I muri sono caduti
L'Ucraina e le altre minacce che ci rifiutiamo di vedere. Parla Filippo Grandi (Unhcr)
"Due terzi della popolazione ucraina è sfollata o bloccata nel paese. La reazione dell’Unione europea è stata immediata e puntuale. Riallacciare un legame tra Mosca e Kyiv sarà un’impresa ardua", dice l'alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite
Nel dare un’occhiata alla sua agenda ci si chiede a quali segrete risorse attinga Filippo Grandi per ottemperare agli innumerevoli impegni senza soccombere ai fusi orari, agli sbalzi climatici, alla stanchezza, mantenendo sempre il garbo raffinato che lo caratterizza, frutto di quella chimica speciale e immediata che hanno le belle persone. Ci conosciamo da diversi anni, ma sono rare purtroppo le occasioni di incontro. Approfitto della pausa pasquale che concede a lui qualche giorno di riposo nella sua casa di Ginevra e a me l’occasione per parlare di quel che sta accadendo in Ucraina, nel cuore dell’Europa, e di come l’Unhcr, l’organizzazione che dirige dal 2016 quale undicesimo Alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (primo italiano a ricoprire questo ruolo), sta affrontando l’emergenza.
Ultimamente ho avuto l’onore di partecipare ad alcune missioni promosse dall’Unhcr, e sul campo ho potuto osservare l’importanza del lavoro svolto nei territori colpiti da guerre e carestie, oggi più che mai fondamentale. Oltre alle vittime, le macerie e i danni incalcolabili, la guerra in Ucraina ha prodotto, in tempi brevissimi, una massa abnorme di rifugiati. A oggi, si stimano 5 milioni di rifugiati fuggiti all’estero, 7 milioni di sfollati interni al paese e 13 milioni di persone a rischio bloccate nelle aree colpite, è così? “È così purtroppo, due terzi della popolazione si trovano in queste condizioni, anche se negli ultimi giorni la situazione sembra più fluida, alcune persone stanno rientrando in Ucraina dalla vicina Polonia o dalla Moldavia, paesi da cui è più facile fare avanti e indietro. Le frontiere europee sono aperte e non è complicato muoversi. A fuggire sono soprattutto donne, anziani e bambini, famiglie improvvisamente spezzate che vogliono ricongiungersi, ma naturalmente perché ciò accada deve cessare la guerra”. Il miraggio di una fine sembra sempre più evanescente e intanto ci si chiede, quando quel giorno verrà, come sarà il dopo e quanto difficile sarà la ricostruzione.
“Ancora più difficile sarà la ricostruzione delle relazioni, non soltanto politiche ma anche sociali, fra Russia e Ucraina, paesi storicamente legati – spiega Grandi – Tutti i russi che conosco hanno parenti o amici ucraini ma di fronte a questo massacro anche molti russofili hanno abbracciato la causa ucraina. Riallacciare un legame sarà un’impresa ardua”.
Ma intanto bisogna pensare all’immediato, all’emergenza che riguarda centinaia di migliaia di persone che hanno perso la loro casa. “Bisogna dire che la reazione dell’Unione europea è stata immediata e puntuale. Il provvedimento straordinario di protezione temporanea concesso ai rifugiati ucraini è stata un’iniziativa molto intelligente”. Pensi che potrebbe costituire un precedente per i rifugiati nel resto del mondo? “Spero di sì ma non lo so, lo si potrà sapere fra poco, con l’arrivo imminente dei rifugiati attraverso il Mediterraneo, agevolato dalla stagione calda. Quello sarà il test rivelatore. Il fatto importante è che l’Europa, prendendo senza indugi tale decisione ha dimostrato che l’unità di intenti e la volontà comune possono raggiungere traguardi impensabili”. Forse questo contribuirà a smontare la retorica dell’invasione. “Non solo, ma intanto questi repentini ed efficaci provvedimenti hanno smontato il mito dell’impossibilità gestionale dei flussi migratori. Anni di muri, respingimenti e ostacoli sono stati smentiti nell’arco di un solo mese, a dimostrazione che la solidarietà, quando è sostenuta da tutti, è davvero possibile. È triste pensare che accanto a questo spiraglio di speranza sorgano iniziative discutibili come quella intrapresa ultimamente dal governo britannico”.
Ti riferisci all’accordo siglato con il Ruanda? “Il piano di spedire alcuni richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito in un paese piccolo e lontanissimo, che in cambio di un lauto compenso si impegna a gestire la procedura di asilo non è giusto, tantomeno efficace. L’intenzione esplicita del governo britannico è quella di scoraggiare chiunque a chiedere asilo sul suolo britannico, scaricando la responsabilità di decidere la concessione di asilo a un paese terzo. Sarebbe un pessimo esempio per il resto del mondo, e una mancanza di rispetto nei confronti dei paesi come il Pakistan o il Kenya che da anni accolgono milioni di rifugiati. Questa abdicazione delle proprie responsabilità in materia di diritto d’asilo da parte di un paese che ha notevoli risorse e influenza globale, è un precedente pericoloso per l’esercizio di questo diritto in tutto il mondo”.
Il tuo lavoro ti porta in giro per il mondo e immagino che negli ultimi due mesi i tuoi spostamenti si siano intensificati. Come viene vissuto questo conflitto fuori dall’Europa? “Il pensiero comune è che quello in Ucraina rappresenti un conflitto di portata globale, considerata l’importanza della Russia quale membro permanente del Consiglio di Sicurezza e superpotenza nucleare. C’è però un indicatore interessante: se si osservano le votazioni all’Onu sulla questione ucraina, ad esempio riguardo alla condanna alla guerra, notiamo che la prima votazione ha ricevuto un altissimo tasso di adesioni che via via, nelle successive votazioni, sono andate scemando. Il consenso non è così unanime come sembra in occidente. Se questa è una guerra dell’occidente contro la Russia non è scontato che siano tutti dalla parte del primo, tanto più che l’attenzione sul conflitto in Ucraina ha distolto lo sguardo su altri paesi in crisi, e l’insorgere di enormi problemi economici contribuisce al distacco”.
La guerra in Ucraina ha dato un impulso molto forte, direi senza precedenti, al volontariato. In mezzo a tante anime buone possono però nascondersi dei criminali che approfittano della situazione. Le agenzie umanitarie stanno lanciando l’allarme sui rischi di sfruttamento e abuso sessuale e sul traffico di esseri umani. “Non è facile monitorare la situazione visto il flusso impressionante di persone che si muove – continua Grandi – Noi cerchiamo di incoraggiare gli stati accoglienti a registrare le persone affinché sia possibile una tracciabilità e promuoviamo una massiccia campagna di informazione, ma naturalmente il pericolo di cui parli è possibile. Per quanto riguarda la partecipazione solidale, confermo l’eccezionalità del caso. Noi abbiamo raccolto quasi un miliardo di dollari di contributi dei quali più della metà proviene da privati, fatto mai accaduto prima con queste proporzioni. È scattato qualcosa di molto forte nel cuore della gente che ha capito, oggi più che mai, l’impatto umano della guerra. Una guerra inaspettata, assurda e mediatizzata che ha messo in relazione, nella coscienza delle persone, le bombe con la fuga. Mi piacerebbe che la stessa compassione fosse riservata allo Yemen, al Sahel, agli altri luoghi del mondo lacerati dai conflitti. I media svolgono un ruolo molto importante, perché quando le persone vedono l’orrore che produce la guerra, tutte le barriere artificiali issate dai populisti per condizionare l’opinione pubblica nei confronti di chi fugge crollano”.
Nulla è più forte dell’immagine, tuttavia i media hanno anche la responsabilità di non indugiare sulla retorica, di non lasciarsi trascinare da ciò che oggi si ama definire “narrazione”, rischiando, con la sovrabbondanza di generare un effetto boomerang. “Certo, è un rischio, ma l’opportunità di conoscenza che ci viene offerta oggi attraverso gli occhi dei cronisti, dei fotografi e degli operatori è impareggiabile, soprattutto se ottiene lo scopo di suscitare la solidarietà”.
Non vivi più in Italia da tanti anni, come vedi il nostro paese dalla tua distanza, qual è la tua patria? “Non ci vivo da… (Grandi fa una pausa di riflessione come a convincersi che la cifra che sta per dire sia realistica) quasi quarant’anni!! Incredibile… Beh, se patria significa radici familiari, culturali e linguistiche certamente rispondo l’Italia, ma per me patria non è un concetto di esclusività, mi considero libero da quel che nell’idea di patria è limitante verso gli altri. Io mi sento bene nel mondo e ancora oggi il mondo, proprio in ragione delle sue diversità, mi incuriosisce”. Il paese che ti è rimasto più impresso? “Al di là della sua innegabile bellezza, l’Afghanistan mi ha appassionato da un punto di vista professionale perché lì ho avuto a che fare con gente che in quel momento tornava a casa, persone che dopo essere fuggite, rientravano, e tutte le lacrime che avevano versato si erano asciugate. Di solito mi occupo del moto inverso. È stato emozionante, un momento altissimo della mia carriera professionale”.
Lavori nel campo umanitario da 38 anni, cosa ti ha insegnato questo mestiere sull’essere umano? Che uomo ti ha fatto diventare? A cosa hai rinunciato? “Da quando, da giovane, ho cominciato a lavorare, ho avuto a che fare con un tema e una parola cardine: crisi. L’umanitario non risolve le crisi, non può farlo, però ha il dovere fondamentale di capire e alleviare la sofferenza delle persone, e può farlo con l’ausilio della pazienza e dell’umiltà, della modestia e del realismo. Rispetto alle altre agenzie umanitarie che si occupano di alimentazione o di assistenza sanitaria, noi abbiamo il compito di assicurare protezione, ci preoccupiamo di fornire alle persone un diritto altrettanto inalienabile, quello dell’asilo. Io amo il mio lavoro, ho sessantacinque anni ma ancora mi piace, mi offre una prospettiva appassionante sul mondo. Non sono un presidente o un primo ministro che sta nel palco reale, io osservo tutto dal loggione, però sono in prima fila”.
Quali inclinazioni deve avere chi sceglie di lavorare nel campo umanitario? “Provare empatia verso le persone che soffrono in un modo che noi in occidente facciamo fatica a immaginare. Se perdi quel senso primario della solidarietà non lo puoi fare, questo lavoro. Per questo è interessante ciò che accade in Ucraina, un paese così vicino a noi, qui in Europa, che ci mostra quanto prodigiosa e incalcolabile possa essere la sofferenza”.
Nel tuo libro “Rifugi e ritorni” (in uscita alla fine di aprile per gli Oscar Mondadori) racconti di un momento rivelatorio, all’inizio della tua avventura nel campo umanitario, che ti ha illuminato sul mestiere divenuto in seguito determinante per la tua vita. “In Thailandia, alla frontiera del nord-est, dove i rifugiati cambogiani, sospinti dalle offensive vietnamite, continuavano ad arrivare. Ero appena arrivato dall’Italia, un giovane vissuto nella pace e inesperto della malattia, dell’esilio, della povertà e della morte. Nell’ospedale di Kab Cherng c’era un medico indiano che mi illustrava con gentilezza i reparti e i pazienti con le loro malattie quando a un tratto un’improvvisa agitazione lo ha spinto verso un letto sul quale una donna stringeva disperatamente un bambino scosso da palpitazioni. Il dottore si è fatto avanti, ha preso il bambino con grande delicatezza, gli ha fatto un’iniezione e lo ha coricato sul letto. Gli ha strofinato il torace, la pancia. Ma non c’era più niente che potesse fare. L’ho visto chinarsi sul bambino, passargli una mano sul volto, sugli occhi. Poi è sceso il silenzio. Mi girava la testa, avevo la nausea, mi sono appoggiato al dottore. ‘Vieni a bere un po’ d’acqua’, mi ha detto. E mi ha portato via. È stato il mio primo, vero contatto con la sofferenza”.
Sempre dal tuo libro traggo una frase per me illuminante: “Il fenomeno della gente in fuga riguarda quasi sempre i paesi più poveri ma viene raccontato dai paesi ricchi” e io aggiungerei che da alcuni di questi paesi viene spesso manipolato. Ho constatato con i miei occhi la verità di questo assunto quando sono stata in Niger. Il quarto paese più povero al mondo dimostrava una capacità di accoglienza inimmaginabile rispetto ai paesi con molti più mezzi. “Il nostro problema è che non vediamo nei pericoli che corre il povero cristo in fuga dal Burkina Faso o da Boko Haram il nostro pericolo, è lontano da noi e dunque non ci riguarda. Quando invece la persona viene percepita come vittima di una minaccia comune, come nel caso degli ucraini aggrediti da Putin, allora scatta l’empatia. Ma noi viviamo in un mondo globale e quel che accade a cinquemila chilometri da noi ci riguarda in egual misura”.
Come si gestisce la generosità? Mi riferisco al fatto che spesso le persone manifestano la loro solidarietà attraverso donazioni di beni materiali: coperte, vestiti, medicinali e altro, rischiando talvolta di creare problemi di logistica. “È così effettivamente, anche se noi non rifiutiamo né respingiamo mai un dono, sarebbe un sacrilegio. Quando si dona, bisogna tenere conto che il trasporto, la distribuzione, tutta la logistica degli aiuti umanitari è complessa e ha un costo, e non dobbiamo aggravarlo. Oggi, in effetti, aiutiamo sempre di più non con distribuzioni di beni in natura, ma attraverso un sistema di pagamenti in denaro, spesso con carte elettroniche, così che chi riceve l’aiuto può gestire autonomamente le proprie spese secondo i suoi bisogni: è sicuro e più rispettoso della dignità di chi riceve assistenza. In Ucraina vi si fa spesso ricorso, è un metodo piuttosto diffuso che accontenta tutti, governi compresi. E costa anche meno in termini organizzativi. Il nostro mandato non è solo proteggere e assistere ma anche di trovare delle soluzioni, insieme ai governi, proiettate verso il futuro, creando condizioni affinché le persone che hanno dovuto abbandonare il loro paese perché costrette a farlo, possano infine tornare o scegliere di andare altrove. Pensare al ‘dopo’ è una cosa che mi entusiasma molto. Per esempio, vent’anni fa in Costa d’Avorio, c’è stata una grande crisi con centinaia di migliaia di rifugiati causati dalla guerra civile. Dopo sforzi durati anni adesso è un paese stabile e noi, il prossimo 30 giugno ad Abidjan, insieme al presidente ivoriano, dichiareremo, secondo una formula denominata ‘clausola di cessazione’ applicata in rarissimi casi, che i rifugiati della Costa d’Avorio cessano di essere rifugiati”.
Interessante che l’Alto Commissario per i rifugiati celebri la fine dello status di rifugiato. “Ma è il coronamento dei nostri sforzi. L’obiettivo è di restituire a uomini e donne la libertà di vivere la loro vita, e quando questo accade è per tutti noi un grande messaggio di speranza”.