Il 9 maggio di traverso
Il Donbas non è dato per perso e arrivano armi a sorpresa. La nuova strategia ucraino-occidentale
Secondo l’intelligence americana, nelle prossime quattro settimane si decidono le sorti della guerra, ma l’obiettivo immediato è rovesciare o almeno contenere i piani di Putin nell'est dell'Ucraina
La resa di Mariupol è la condizione posta da Vladimir Putin per qualsiasi passo successivo, che per il presidente russo significa creare uno stato russo dentro ai confini ucraini che si allarga nel Donbas, fin dove il suo esercito riesce ad arrivare. Putin fissa le condizioni e si irrita perché l’occidente con la sua “sfacciata russofobia” ha scelto la “soluzione militare”, cioè ha deciso di combattere al fianco dell’Ucraina una guerra che è stato Putin, sfacciatamente e illegalmente, a volere. E questo fa pensare che questa guerra gli stia proprio andando storta: dice che i suoi uomini non si addentrano nell’acciaieria di Mariupol, chiede di sigillarla in modo che non voli una mosca, e poi ne chiede la resa: forse non riesce a espugnarla? E le armi che arrivano, in modo molto più organizzato, agli ucraini lo infastidiscono perché stanno mostrando che l’esercito russo non è l’armata invincibile che pareva a tutti, un altro pezzetto di illusione che crolla dell’enorme cantonata presa dall’occidente sulla natura di Putin?
Queste sono le domande che molti si stanno facendo, cartine, immagini satellitari e intelligence alla mano. La risposta non c’è, e di previsioni ottimistiche davanti a un paese che sta morendo sotto i nostri occhi non se ne fanno, ma quest’ultima settimana qualche indicazione l’ha fornita. Lunedì sera è stato annunciato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky l’inizio dell’offensiva russa nel Donbas. Cinque giorni dopo l’avanzata di Putin è contenuta, e Mariupol ha portato avanti la sua resistenza.
Nel frattempo Putin però ha fissato una data per celebrare la vittoria di una guerra che non chiama nemmeno guerra – il 9 maggio – che quindi dovrebbe significare per lui la fine della guerra. E’ possibile, come dimostra l’attacco missilistico sull’ospedale di Donetsk ieri, che l’offensiva diventerà molto più cruda e più rapida. Ma è anche possibile che quel che Putin vuole non sia per lui del tutto raggiungibile, per le stesse ragioni che valevano rispetto al piano A – la guerra lampo è fallita perché Putin ha sopravvalutato il proprio esercito e sottovalutato la leadership di Kyiv e il sostegno occidentale – e per altre più recenti: non c’è più l’effetto sorpresa del 24 febbraio, l’esercito ucraino si sta attrezzando e formando per combattere nel Donbas; la resistenza di Mariupol ha sottratto forze all’esercito russo che, ci stiamo accorgendo, erano indispensabili. In più gli americani oggi condividono (finalmente) la stessa urgenza di Zelensky, approvano pacchetti di armi del valore di 800 milioni di dollari alla volta (due volte in due settimane), mentre gli inglesi si sono messi ad addestrare i soldati ucraini in Polonia e nella stessa Gran Bretagna, in modo che possano utilizzare i mezzi nuovi messi a disposizione.
Joe Biden, presidente americano, ha detto che non renderà noto l’elenco delle armi fornite: anche questo fa parte del piano di ribaltare, se possibile, l’effetto sorpresa a proprio favore. Biden, che pure con le parole è stato molto chiaro, ha recuperato il celebre motto di Theodore Roosevelt sul parlare con gentilezza portandosi dietro il bastone più grande a disposizione e ha detto: “Parliamo con calma e portiamo un grosso Javelin”, che poi è la strategia esplicitata perfettamente dal generale David Petraeus a marzo: “Se è un oggetto che spara, inviamolo”. Secondo l’intelligence americana, nelle prossime quattro settimane si decidono le sorti della guerra, ma l’obiettivo immediato è rovesciare o almeno contenere i piani di Putin nel Donbas. Così non sarà Mosca a dettare le condizioni e ai suoi calcoli sbagliati potrebbe anche aggiungersi l’aver scelto il 9 maggio come festa della vittoria.