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America ed Europa divisi su un accordo di pace? No, ecco perché
Gli Stati Uniti, pensando anche alla Cina, non hanno motivo di puntare a una guerra “eterna” in Ucraina
Tra chi sostiene la necessità di fermare l’invio di armamenti all’esercito ucraino si sta diffondendo sempre più l’opinione che gli interessi strategici di Stati Uniti e Unione Europea sull’Ucraina siano divergenti. L’opinione si fonderebbe sulle dichiarazioni – ritenute troppo bellicose – del presidente Joe Biden, a partire dal discorso a Varsavia del 26 marzo, e sulle mosse degli Stati Uniti, che hanno annunciato per voce del segretario alla Difesa Lloyd Austin di voler inferire un colpo pesante a Mosca per esser certi che non abbia più la forza militare per colpire altri paesi europei in futuro.
L’argomentazione si basa sul fatto che raggiungere il prima possibile un accordo di pace sia nell’interesse europeo, e non di Washington che invece mirerebbe a trasformare il conflitto in Ucraina in una guerra eterna, simile a quanto accaduto in Afghanistan (parole loro). Non è insolito che questa posizione sia rilanciata anche dal ministero degli Esteri cinese, che in un tweet ha scritto: “Gli Stati Uniti stanno imponendo all’Europa un sacrificio mentre ottengono grandi vantaggi dalla guerra”.
Cerchiamo dunque di analizzare razionalmente questa posizione. Per farlo vanno poste alcune domande. Gli Stati Uniti trarrebbero beneficio da una sconfitta di Mosca, o almeno da una vittoria mutilata? Certamente sì, visto lo sforzo economico, bellico e politico impresso da Vladimir Putin in questa – a suo dire – “operazione militare speciale”. Ma si può dire lo stesso anche dei paesi europei, che assesterebbero un duro colpo alle ambizioni espansionistiche russe. La strategia di appeasement, tanto cara alla ex cancelliera Angela Merkel, utilizzata nel corso delle precedenti occupazioni russe in Georgia e in Ucraina non sembra aver sortito alcun effetto di deterrenza su Mosca.
Forse allora i “pacifisti” ritengono che gli Stati Uniti non stiano facendo abbastanza per chiedere un cessate il fuoco il più presto possibile, che sarebbe invece nell’interesse dell’Ue? In effetti una tregua si potrebbe raggiungere anche domani mattina, a patto che l’Ucraina rinunciasse a un terzo del proprio territorio nazionale, il più fertile e ricco e al proprio sbocco sul mare. Ma torniamo al punto precedente: chi impedirebbe allora a Putin di ripetere la propria scommessa su un altro paese, magari contro la Moldavia o contro la Finlandia prima che entri a far parte della Nato? Appare chiaro che la tregua delle ostilità in Ucraina arriverà solo sul campo: oggi né Zelensky né Putin hanno interesse a fermare la guerra, visto che entrambi non hanno raggiunto i propri obiettivi militari e politici (il primo difendere l’integrità territoriale del proprio paese, il secondo ottenere una vittoria sufficiente ad alimentare la propaganda).
Va però chiarito che non c’è ragione per cui gli Stati Uniti possano sperare in una guerra “eterna” in Ucraina. Il conflitto con Mosca ha irrimediabilmente distratto l’attenzione di Washington dalla Cina, il vero rivale economico e politico per gli Usa. I ritardi negli aiuti militari a Taiwan dovuti allo sforzo bellico per rifornire l’Ucraina ne sono la prova. La guerra inoltre ha fatto lievitare i costi energetici che colpiscono anche gli americani: il prezzo della benzina ai distributori americani è aumentato di quasi un terzo dall’inizio dell’invasione. Sulla sponda occidentale dell’Atlantico la crisi energetica morde certamente di meno che in Europa, ma non è pensabile un conflitto ventennale in Ucraina. Anche per motivi militari: quella che si sta combattendo non è una guerra di insurrezione, in cui gruppi armati sfiancano gli occupanti con azioni di guerriglia. Si tratta invece di un conflitto frontale tra due eserciti ben armati, via terra, aria e acqua.
L’Europa deve sperare in una tregua e nella fine dell’ostilità, per ridurre le sofferenze dei civili sotto le bombe russe e ucraine. Ma una resa di Kyiv in nome della pace non sarebbe nell’interesse di Bruxelles.