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il romanzo dei tre regni

I calcoli del dragone. Perché alla Cina di Xi non conviene la guerra di Putin

Siegmund Ginzberg

In una sua poesia, Mao si rivolge al monte Kunlun e immagina per la prima volta il mondo tripolare – Europa, America, Cina – che doveva indirizzare la politica estera cinese. I suoi successori si sono attenuti alla linea. Il conflitto in Ucraina è un pericolo per questa ricerca di equilibrio

Uno spettro si aggira per l’occidente. Ha l’aspetto di un punto interrogativo: da che parte sta, che farà la Cina? Rispondo: farà, come ha sempre fatto, quello che conviene alla Cina. E’ quel che loro vanno ripetendo. Xi Jinping ha già detto che la Cina non vuole che ci sia una guerra mondiale. Sarebbe più credibile se facesse davvero qualcosa per evitarla. E’ l’unico che può fare a Putin “offerte che non si possono rifiutare”. Credo che Xi sia sincero. Per una buona ragione: perché a Pechino la guerra non conviene. Quella scatenata contro l’Ucraina dall’amico Putin gli è già costata troppo. E molto di più rischia di costargli l’escalation.

Mao, il fondatore della dinastia attualmente al potere a Pechino, era un despota colto, estroso. Esprimeva la sua visione del mondo in poesia. Nulla come la poesia cinese consente di parlare per metafore, per allusioni, per analogie, talvolta per enigmi. Consente di dire le cose in modo semplice, pur mantenendo una dose di ambiguità. Il poema in cui Mao anticipava la politica internazionale della sua Cina risale addirittura al 1935. I suoi successori, compreso quello in carica, Xi Jinping, si sono sinora sostanzialmente attenuti alla linea allora abbozzata.

Riprendo dal mio nuovo libro, Colazione a Pechino. Sogni e incubi di un impero senza tempo, per Feltrinelli. Sarà nelle librerie tra pochi giorni. Racconta della “mia” Cina di quarant’anni fa, di quando ero corrispondente da Pechino. Ma anche, credo, della Cina di oggi, di domani, e di decenni, secoli, millenni prima. Il poema di Mao si intitola “Kunlun”. Il Kunlun è la maestosa e impervia catena di montagne che si interpone tra la Cina a est, l’Asia centrale e l’Afghanistan a ovest, il subcontinente indiano a sud, l’allora Unione sovietica, oggi Russia, a nord. E’ coperto di neve. Da miliardi di scaglie lasciate cadere da “tre milioni di draghi di giada in volo”. Lì nascono tutti i fiumi dell’Asia. Da lì i ghiacciai, sciogliendosi d’estate, “inondano fiumi e ruscelli, trasformando gli uomini in pesci e tartarughe”. Il Kunlun è superiore a tutto, nessuno può “giudicare il male e il bene che ha portato in mille autunni”. 

In una sua poesia, Mao si rivolge al monte Kunlun, da tagliare in tre pezzi: uno per l’Europa, uno per l’America, uno per l’oriente

Mao, che non peccava di modestia, neppure quando non era ancora il Grande timoniere, ma solo il capo di una banda di guerriglieri braccati da un capo all’altro della Cina, osa rivolgersi al maestoso Kunlun, a tu per tu, quasi da eroe a divinità:

“Al Kunlun dico ora:
Nessuno ha bisogno di tutta la tua altezza,
né di tutta la tua neve.
Potessi brandire la mia spada sino al Cielo,
ti taglierei in tre pezzi:
uno per l’Europa,
uno per l’America,
uno lo terrei qui in Oriente.
E allora regnerebbe la pace nel mondo,
lo stesso calore e lo stesso freddo su tutta la Terra”.

C’è chi dice che questa sarebbe la prima formulazione della concezione tripolare del mondo, che poi avrebbe improntato costantemente la politica estera cinese. L’idea gli sarebbe venuta dal Romanzo dei Tre Regni, sostiene uno studioso di Hong Kong, Lai Sing Lam, in un libro pubblicato da Peter Lang nel 2011 in inglese: The Romance of the Three Kingdoms and Mao’s Global Order of Tripolarity. La tesi è suggestiva. Anche se appare forzato, anzi pure un tantino ridicolo, il tentativo di ridurre tutto, la guerra civile tra comunisti e nazionalisti, i conflitti di potere all’interno del Partito cinese, le effettivamente numerose e sorprendenti svolte a U della politica estera cinese degli ultimi settant’anni, alla concezione tripolare del mondo.

L’idea cinese di un mondo tripolare (o multipolare che dir si voglia) ha un’origine letteraria. Mao era un appassionato lettore dei classici, e spesso si immedesimava nei personaggi letterari. Il Romanzo dei Tre Regni era tra le sue letture preferite sin dai tempi di scuola, quando lui e i compagni lo tenevano sul banco, coprendolo in fretta e furia con un testo di Confucio quando passava il maestro. Non è un libro di storia, anche se parla di fatti e personaggi storici, né una raccolta di miti e racconti sovrannaturali, di strane storie di fantasmi, che da noi in occidente si chiamano racconti di fate, non è un fantasy, non è romanzo di costume, né un romanzo erotico. Non è un trattato filosofico o militare, anche se lo leggevano e vi si ispiravano gli ufficiali di tutte le parti che in Cina tra le due guerre mondiali si combattevano caoticamente tra di loro. Era il loro Clausewitz, specie per i generali nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek. Cosa che comunque non gli evitò che perdessero la guerra. E non è nemmeno un manuale di politica, anche se qualcuno l’ha definito un’enciclopedia degli stratagemmi, degli inganni, dei trucchi, delle alleanze e dei tradimenti politici. E’ un po’ tutto questo insieme. Anzi ha di tutto tout court: guerra e pace, battaglie e diplomazia, donne e amori, vittime e carnefici, furbissimi e ingenui, fidi e infidi, leader odiati e amati, fortunati e sfortunati. Azzarderei dire che è l’Iliade cinese.

Mao aveva continuato a leggerlo e rileggerlo, durante la Lunga marcia, anche nei percorsi a cavallo. Lo lesse e rilesse anche negli ultimi anni, quando avevano stampato appositamente per lui edizioni a caratteri cubitali, per non affaticargli gli occhi. Sono i volumi, cuciti e conservati in scatole di tela blu da cui pendono strisce di carta manoscritte, che riempiono gli scaffali dello studio nel cuore di Zhongnanhai, la Città ultra proibita, dove riceveva gli ospiti importanti. Li si nota ad esempio nelle foto della visita di Nixon e Kissinger, nel 1972.

L’amicizia “senza limiti” tra Putin e Xi Jinping non convince. Per la Cina non ci sono amici per sempre, né nemici per sempre

Quella fu certo una delle svolte più clamorose. Ma niente affatto sorprendente alla luce delle svolte precedenti e di una concezione multipolare del mondo. C’era stato, negli anni 30, e nei primi anni 40, un momento in cui Mao e gli Stati Uniti erano amici. Roosevelt gli aveva mandato inviati e consiglieri, persino aiuti militari. Mao aveva ricambiato facendo sapere che – proprio lui che non viaggiò quasi mai fuori dai confini cinesi – sarebbe andato volentieri a rendere visita a Roosevelt. Il nemico principale di entrambi erano i giapponesi. Washington aveva incoraggiato un’intesa, anzi una vera e propria collaborazione al governo, tra Chiang Kai-shek e i comunisti. Finita la guerra contro i giapponesi, Washington aveva scelto Chiang e rotto coi comunisti. A Mao non restava altra scelta che rivolgersi all’altro forno: quello di Stalin. Lo fece con zelo fino eccessivo. Mandò un milione di “volontari” a morire in Corea, in una guerra per procura contro gli Stati Uniti, anzi contro l’Onu, senza ancora pace 70 anni dopo. L’amicizia Cina-Urss sembrava destinata a durare in eterno. Era cementata anche da una comune matrice ideologica, quasi una comune religione. E invece non erano passati altri 10 anni che Mosca e Pechino si erano ritrovate sull’orlo di una guerra tra loro, che pareva davvero “inevitabile”. 

Mao si era riconciliato con l’America quando il fossato pareva davvero incolmabile. Morto Mao, Deng Xiaoping non si era limitato ad andare in America a indossare il cappello da cowboy: aveva “dato una lezione” al Vietnam, che pure la Cina aveva aiutato quando era in guerra contro gli americani, per “punirlo” dell’invasione e del cambio di regime nella Cambogia di Pol Pot. Altri vent’anni, e Cina e America sembrano ora tornate ai ferri corti. Mentre si dà per scontata l’amicizia “senza limiti” tra Putin e Xi Jinping. 

Non mi convince. Per la Cina non ci sono amici per sempre, né nemici per sempre. Il triangolo è sempre in movimento, il rapporto tra i lati cambia a seconda delle circostanze. E delle convenienze. Ci mette un po’ a cambiare, e all’inizio il cambiamento può essere quasi impercettibile. Ammettiamo per un istante che i Regni tra cui spartire il mondo siano sempre tre, come immaginava Mao nella sua poesia (è una licenza poetica, in realtà sono ben più di tre), e che siano proprio quelli tra cui Mao avrebbe diviso il monte Kunlun: Europa, America e Cina. Ebbene, c’è da aspettarsi che la Cina faccia il proprio interesse, punti a mantenere gli equilibri, o mettersi d’accordo con uno degli altri due per contenere il terzo, il più aggressivo, quello che le crea più problemi, e che comunque faccia di tutto per non restare isolata. 

Deng Xiaoping non si era limitato ad andare in America a indossare il cappello da cowboy: aveva “dato una lezione” al Vietnam

Al momento, quello dei litiganti che sta creando più problemi alla Cina è la Russia di Putin. La guerra all’Ucraina ha rovinato o rischia di rovinarle gli affari. La Cina era il principale partner commerciale dell’Ucraina (come pure della Russia), uno dei principali dell’Europa. Al momento dell’invasione in Ucraina c’erano 6.000 cittadini cinesi. Aumenti delle materie prime, inflazione, cancellazioni di ordini, marasma in tutti i mercati hanno già fatto alle imprese cinesi danni molte volte superiori al vantaggio che gli verrebbe dal gas e petrolio russo a prezzo scontato. E’ vero che su questo le imprese cinesi si sono buttate a pesce. Anche per la Cina vantaggi a breve e vantaggi a lunga sono in conflitto. Ma comunque si girino i conti, la Russia non può sopperire a quel che alla Cina offrono Europa e Stati Uniti, o a quel che costerebbe all’economia cinese, già indebolita dalle complicanze del Covid e dal freno demografico che ha recentemente scoperto con orrore, un rallentamento dell’economia mondiale. 

La Cina avrebbe tutto da perdere, niente da guadagnare da un protrarsi e un incancrenirsi della guerra in Ucraina. E molto più ancora da una guerra mondiale. Anche se riuscisse a restarne fuori o trarne qualche vantaggio marginale. Le sue chanche sono legate alla crescita dei mercati mondiali, all’apertura delle economie. Non può più fermarsi, pena l’incepparsi. L’isolamento non è più da tempo un’opzione. E’ la ragione per cui la Cina, che si dice ancora comunista, è da qualche anno diventata il massimo campione mondiale della globalizzazione. Prospera coi mercati aperti, la cooperazione internazionale. Avvizzirebbe in un clima di chiusure, protezionismi incrociati o, peggio ancora, di guerre e sanzioni. Xi Jinping continua a ripeterlo. Come già facevano i suoi predecessori, non manca un appuntamento con il Forum di Davos in Svizzera. Anche se non più in presenza, causa Covid (o, come insinua qualcuno, causa il fatto che Xi Jinping non può più assentarsi nemmeno un attimo dalle leve del potere, pena che qualcuno ne approfitti per fargli le scarpe). Perché non ne trae le conseguenze?

Ci sono anche altre ragioni per cui alla Cina non può andare bene l’avventura e l’azzardo di Putin. In marzo l’aggressione russa all’Ucraina è stata condannata da due terzi degli stati membri dell’Onu. Solo 7 Paesi hanno votato contro le risoluzioni di condanna. In 35 si sono astenuti. La Cina che ambisce a una centralità mondiale non può che essere in imbarazzo per il fatto di ritrovarsi in un gruppo minoritario. A Pechino si sono dati un gran da fare per smentire che l’aggressione fosse stata in qualche modo concordata, o che Xi Jinping ne fosse stato informato da Putin quando lo ha ospitato alle Olimpiadi invernali. Hanno smentito di avergli fornito armamenti. “Il conflitto tra Russia e Ucraina non fa bene alla Cina. Avessimo saputo di una crisi imminente, avremmo fatto di tutto per prevenirla”, ha scritto in un intervento sulla pagina Op-ed del New York Times del 15 marzo l’ambasciatore cinese a Washington, Qin Gang. 

Diplomazia e media di Pechino si sono arrampicati sugli specchi per dire che Ucraina e Taiwan sarebbero questioni completamente diverse

La guerra all’Ucraina contraddice tutto quello che hanno sempre detto circa l’inammissibilità dell’intervento militare di uno stato contro un altro stato, o anche dell’ingerenza negli affari interni di un altro stato. Hanno sempre sostenuto quella che chiamano “indivisibile sicurezza” dell’Europa, e anche quella che definiscono “un’architettura di sicurezza europea equilibrata e sostenibile”. Non gli può garbare che l’Europa venga militarmente minacciata dalla Russia. Né l’inevitabile corollario, che venga spinta completamente nelle braccia degli Stati Uniti. L’invasione russa non gli serve a nulla, anzi li mette grandemente in imbarazzo, nei rapporti con i vicini asiatici, nei rapporti già tesi con gli Usa, e anche sulla questione di Taiwan. E’ tra la ragioni per cui diplomazia e media di Pechino si sono, sin dall’inizio della crisi, arrampicati sugli specchi per dire che Ucraina e Taiwan sarebbero questioni completamente diverse. Come sta andando in Ucraina non incoraggia comunque la Cina a concepire un’invasione di Taiwan.

Non mi convince l’idea che ci debba essere per forza un’affinità elettiva tra Xi Jinping e Putin, o una contrapposizione mondiale tra democrazie e autoritarismi. Non saprei come definire, se non come pulsione suicida per le democrazie occidentali, il mettere nello stesso sacco Cina, Russia, Iran, e magari la Turchia di Erdogan, o che so, l’India del nazionalista indù Modi, o il Brasile di Bolsonaro. Sarebbe come dirgli: “Despoti di tutto il mondo unitevi!”. 

Non c’è amicizia o affinità elettiva autoritaria che tenga di fronte agli interessi di fondo. L’interesse della Cina non è conquistare il mondo. E’ che le venga riconosciuto un ruolo centrale negli equilibri del mondo. Sin dal nome: Zhongguo, Regno di Mezzo, paese al centro. E’, come dire, la sua ragione sociale. Non ha mire sui vicini. Semmai ha mire di centralità. La centralità di fatto, che ha acquisito (o ha riacquisito) in tempi storici relativamente recenti, non le viene dalla pur ormai assai significativa potenza militare, né solo da una stabilità politica interna imposta col pugno di ferro. Le viene dallo sviluppo e dall’interscambio col resto del mondo. Xi Jinping al momento è il meglio attrezzato a convincere Putin a finire la guerra. Purché si dia una mossa.