Sfida tra populismi

Lula tra demagogia e realpolitik

Giovanni Damele

Inizia la campagna elettorale in Brasile e le alternative sono il populismo di sinistra riscaldato e alquanto annacquato dell'ex presidente e quello di destra sempre più violento e minaccioso di Bolsonaro

Inizia ufficialmente la campagna elettorale in Brasile, e l’alternativa sembra definirsi tra il populismo di sinistra  riscaldato e alquanto annacquato  di Lula e il populismo di destra  sempre più violento e minaccioso  di Bolsonaro. Tra i due litiganti, il terzo, per il momento non si vede. E del resto da mesi si sa che il settantaseienne Lula da Silva, riabilitato dalla giustizia brasiliana dalle accuse di corruzione e saldamente in testa nei sondaggi, resta l’unica opposizione elettoralmente solida al clan Bolsonaro.
 
Dell’inizio di campagna è arrivata, sulle sponde europee, l’eco di una intervista al Time che ha fatto scorrere un po’ d’inchiostro. Lula ha detto, tra le altre cose e in soldoni, che le colpe della guerra in Ucraina sono da dividere tra Putin e Zelensky, che per far la guerra bisogna essere in due, che non si è trattato abbastanza per evitare il conflitto. Ha aggiunto qualche pezzo – stantio – del repertorio della sinistra equidistante (l’Ucraina nella Nato) e qualche passaggio da predica di parroco di campagna (si raccoglie quel che si semina!). Ovviamente è facile vedere gli errori del discorso di Lula: dal 2014, anno dell’annessione della Crimea, l’Europa è entrata in una fase di appeasement nei confronti di Putin che ha incluso, tra l’altro, proprio l’opposizione all’entrata nella Nato dell’Ucraina. Più che l’intransigenza della quale parla Lula, viene in mente il capitolo terzo del Principe di Machiavelli: “La guerra non si leva, ma si differisce a vantaggio d’altri”. 


Ma Lula non parla a un seminario di esperti di Relazioni internazionali. Fin dalla sua prima vittoria alle presidenziali, nel 2002, Lula ha una fondamentale preoccupazione elettorale: non perdere elettori a sinistra e non spaventare né la classe media più moderata né i gruppi dirigenti che tengono le redini del paese. La strategia comunicativa è stata fin da allora largamente ridefinita dal pubblicitario Duda Mendonça, che creò la nuova immagine rassicurante del “Lulinha paz e amor”, come lo chiamavano ironicamente gli irriducibili di sinistra. La strategia funzionò. Nel corso del tempo, costò a Lula marginali scissioni a sinistra (il Psol di Marcelo Freixo) e consensi in crescita tra le classi medie. Parte della strategia dipende dal ticket elettorale con un vicepresidente moderato: se nel 2002 e nel 2006 fu José Alencar, questa volta sarà proprio quel Geraldo Alckmin che nel 2006 lo aveva sfidato fino al secondo turno come candidato di centrodestra. Alckmin, storico governatore dello stato di São Paulo, porta in dote a Lula i voti del sud, più ricco e più refrattario a votare il Pt, che invece sfonda negli stati più poveri del nord-est. 


Se Lula è ancora visto, da alcuni, come “radicale”, è perché in Brasile basta essere socialdemocratici per essere radicali. Insomma, se la barra deve tendere al centro, occorre però non trascurare il proprio elettorato di riferimento. Per questo, bisogna dosare la retorica della campagna elettorale. Abbandonati da più di 20 anni i toni rivoluzionari della sinistra tradizionale, Lula ha da tempo ricalibrato il suo discorso su quello del populismo di sinistra latino-americano no-global e post-coloniale. Quest’ultimo ingrediente, tra l’altro, permette sempre di recuperare un po’ del vecchio antimperialismo anti-yankee. La contrapposizione popolo (sano) ed élite (corrotta) può facilmente essere riarticolata sull’asse sud-nord con gli Stati Uniti a recitare il classico ruolo degli imperialisti e i paesi occidentali, nel loro insieme, dei colonialisti. 


Da questo punto di vista, la retorica sul conflitto in Ucraina non sorprende affatto. E poco importa se, per difenderla, alla fine si deve abbracciare proprio quella teoria delle sfere d’influenza che, sotto le spoglie della dottrina Monroe, ha condannato l’America latina al ruolo subordinato di “cortile di casa” degli Stati Uniti, concetto geopolitico analogo a quello dell’“estero vicino” con il quale la Russia giustifica la sua influenza sugli stati post-sovietici. In campagna elettorale si può correre insieme agli antichi avversari e andare d’accordo, per una volta, con Kissinger. Sono, dopotutto, strategie: Brasilia val bene un po’ di Realpolitik.

Giovanni Damele

Universidade Nova di Lisbona

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