il giorno della vittoria

Nella Piazza Rossa Putin ha parlato ai suoi per dire: dobbiamo difenderci

Micol Flammini

Il capo del Cremlino vuole essere l'uomo delle buone notizie per i russi. Quello del 9 maggio non è stato un discorso conciliante, ma solo un tentativo di dire che va tutto bene: i cittadini possono accettare la guerra finché viene raccontata loro dalla propaganda 

Vladimir Putin ha deciso da tempo di diventare, per i russi, il presidente delle buone notizie. Durante la pandemia, argomento del quale ha cercato di occuparsi il meno possibile, chiamava le chiusure “settimane senza lavoro” affinché rimanere a casa non venisse percepito come un obbligo, ma come  un periodo di riposo. Chiese agli amministratori locali di occuparsi delle questioni sgradevoli e degli annunci antipatici. Ieri, durante la commemorazione del Giorno della vittoria, sulla Piazza Rossa non ha chiesto ai russi un sacrificio ulteriore per la guerra. Ha capito che i cittadini possono sostenere l’invasione finché la guardano in televisione e assorbono la propaganda, ma non  quando la guerra entra in casa sotto forma di una mobilitazione generale. Un suo ex consigliere, Gleb Pavlovski, ha detto che Putin “ha sviluppato una certa sensibilità”: sa cosa può permettersi e cosa no. Il presidente russo ha ancora a cuore il sostegno dei suoi cittadini e il suo discorso alla parata del 9 maggio era per loro: i russi e non il resto del mondo. A loro ha detto che la guerra è stata una decisione “forzata, tempestiva, l’unica giusta”. “Forzata” perché sono stati gli Stati Uniti e la Nato che stavano dotando l’Ucraina di armi nucleari a spingere la Russia a  prevenire un loro attacco. “Tempestiva” perché nonostante Mosca abbia cercato di dialogare prima di combattere, ormai non aveva più tempo. “L’unica giusta” perché altrimenti la Russia sarebbe stata attaccata e schiacciata. Ai russi  ha detto che Mosca  è la sola a custodire i valori occidentali, il resto, Stati Uniti in testa, sono nel degrado morale. Per questa sua eccezionalità la Russia sarà sempre attaccata.  Il capo del Cremlino  ha cercato di trasmettere senso di urgenza e isolamento e ha parlato anche dei soldati morti, delle famiglie da proteggere e da sostenere economicamente. Sull’occidente, sulla Nato, sugli Stati Uniti e i loro “satelliti” costretti a obbedire, ha scaricato ogni colpa: Putin non imputa la mancata vittoria alla disorganizzazione del suo esercito, bensì all’occidente che sta armando l’Ucraina.  Non ha fatto passi indietro, ha soltanto sottolineato i pilastri della sua invasione: che non è più un’operazione di denazificazione o di liberazione, ma  per proteggere la Russia. 

 

Non ha cantato vittoria perché non aveva in mano successi grandi a sufficienza da rivendicare, nonostante le parate  si siano  tenute anche a  Mariupol e Melitopol. Non ha dichiarato un’escalation perché  ha voluto dire ai russi che va tutto bene, ma  con toni accesi ha fatto capire che la guerra non finirà presto.  Lo strabismo ideologico di Putin non  vede le falle della propaganda, vuole soltanto che i russi  credano  che la guerra sia giusta e ieri mentre deponeva i fiori sulla tomba del milite ignoto dedicato a tutti i caduti dell’Unione sovietica, anche agli ucraini, nelle città  di gran parte dell’Ucraina suonavano le sirene che annunciavano gli attacchi. Odessa è stata colpita da un missile e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in visita nella città portuale si è dovuto rifugiare. Quello di ieri non era un discorso dimesso, o conciliante,  era un discorso rivolto ai russi: erano loro gli invitati nella Piazza Rossa. Putin ha fatto anche una cosa inattesa, che è il segnale di quanto non parlasse all’occidente, ma ai suoi. Si è unito al Reggimento immortale composto dai discendenti di chi ha partecipato alla Seconda guerra mondiale che ogni 9 maggio  scendono in strada tenendo in mano i ritratti  di genitori e fratelli che hanno contribuito alla vittoria. Putin ha sfilato reggendo l’immagine di suo padre e, dopo mesi di isolamento, di tavoloni e distanziamento, aveva una gran voglia di farsi vedere mentre stringeva mani. 

 

Qualcuno nel Reggimento ha cercato di protestare. E’ stato arrestato.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)