Conviene resistere
La “convenienza” nel sostenere l'Ucraina è politica e va oltre i costi-benefici. Lettera agli imprenditori
Se non fosse nato un fronte occidentale composito, all’indomani della scelta bellica di Putin avremmo uno scontro che passerebbe sulle nostre teste, non solo con il Lend-Lease di Joe Biden o con la forte dislocazione politica di Downing Street, ma con il distacco dell’Europa orientale, dei paesi baltici e perfino di Svezia e Finlandia
Carlo De Benedetti dice che la guerra di resistenza in Ucraina agli europei non “conviene”, che il suo portato per noi sarà un insieme di recessione e di tensione migratoria insostenibile, e dunque dovremmo fare ogni sforzo per uscirne, costi quel che costi. Non stupisce che una personalità pubblica assuma una posizione critica sul corso delle cose a partire dall’invasione russa; molti “realisti” hanno sostenuto che la Russia ha le sue ragioni strategiche, e sopra tutto che l’evoluzione sul campo mostra ormai un fronte anglosassone distinto dalla posizione europea perché impegnato nel progetto di finanziare e armare i resistenti “per indebolire Putin”, come ha detto il segretario alla Difesa americano, e impedirgli di perseverare nel suo espansionismo, il che avvicinerebbe una prospettiva di escalation e allontanerebbe il negoziato per il cessate il fuoco e una qualche forma di pace armistiziale (questione controversa). Quando espresse con freddezza anche sorprendentemente cinica, ma da persone informate dei fatti, che non blaterano di una guerra per procura dell’imperialismo americano e dell’occidente a esso soggetto, e quindi non rovesciano le carte in tavola, certe idee hanno pieno diritto al vaglio.
In realtà la dislocazione degli occidentali su uno stesso fronte, quello del sostegno agli ucraini contro l’invasione, non ha soltanto una dimensione etica, ché l’etica in guerra conta ma solo fino a un certo punto, in realtà “conviene” all’Europa e sopra tutto all’Europa. La vittima designata di un ipotetico quadro diverso da quello che si è manifestato dopo l’invasione di febbraio è la scommessa sulla pace e sulla prosperità sociale e di mercato di Francia e Germania, che sono la sostanza o il cuore dell’Unione come idea strategica e non solo entità mercantile. Con Trump e con la Brexit, con l’indebolimento e la rimessa in discussione della Nato nel quadro della minacciosa ideologia populista e isolazionista di America First, e con il progetto di dis-integrazione dell’economia britannica dal mercato unico e dalla sua impalcatura normativa e di sicurezza, Parigi e Berlino andavano verso un drastico ridimensionamento delle ambizioni nazionali e internazionali.
I francesi hanno sempre cercato di lavorare sulla sicurezza collettiva in proiezione verso la diplomazia russa, immaginandosi guida politica del disegno, e i tedeschi occidentali e poi unificati, espressione di una situazione costituzionale uscita radicalmente nuova dalla fine del Reich e poi della Guerra fredda, hanno da sempre agito sul commercio e l’energia per tutelare le loro forti basi economiche, la loro influenza di area, la loro centralità nella costruzione europea, e per dare corso alla loro natura di giganti della mediazione nelle relazioni con l’ingombrante vicino (Ostpolitik). Queste caratteristiche sono patrimoni che il fronte unito occidentale preserva, e che una disunione svaluterebbe fino al fallimento.
Se non fosse nato un fronte occidentale composito, distinto ma unito nelle scelte fondamentali, all’indomani della scelta bellica di Putin avremmo uno scontro che passerebbe sulle nostre teste, non solo con il Lend-Lease di Joe Biden, che garantisce il poderoso sostegno alla resistenza nazionale degli aggrediti, o con la forte dislocazione politica di Downing Street, ma con il distacco dell’Europa orientale, dei paesi baltici e, come si vede dal corso degli eventi, perfino di Svezia e Finlandia, bastioni neutralisti in via di riconversione politica e securitaria. L’Europa intesa come Unione a base franco-tedesca si ridurrebbe a un insieme di economie dipendenti dalla benevolenza energetica russa, un soggetto deprivato di identità e senso politico, esposto a problemi seri di sicurezza e isolato, disancorato dalla sua stessa matrice storica.
Malgrado ogni dubbio lecito, ogni sfumatura di distinzione, ogni “convenienza” vera o presunta, tutte cose discutibili e sulle quali non avrebbe senso fare guerre ideologiche preventive, questo è quello che un politico europeista di esperienza come Mario Draghi mostra fin dall’inizio di avere capito. Come lo hanno capito Macron, Sánchez, Mitsotakis e Scholz, l’uomo di stato che paga il prezzo più alto per una riconversione politica radicale non solo su energia e armamenti, anche sul corso storico e simbolico e sulla rotta pluridecennale della nazione. Gli imprenditori non sono di regola tenuti al ragionamento politico complesso, lavorano con le perdite e i profitti calcolati essenzialmente sul metro degli indicatori di mercato e sociali. Ma non sarebbe male se per una volta si interrogassero su che cosa voglia davvero significare, sulla scala della politica degli stati, che non avrà più un primato ottocentesco ma non è marginale anche nel calcolo economico, il concetto di “convenienza”.