Belgorod, Russia, l'incendio al deposito di carburante del 1 aprile (foto di Ansa)

Mosca colpita in casa

La rete di spie e sabotatori che in Russia organizza la resistenza

Cecilia Sala

Incendi, bombe ed esplosioni in territorio russo, anche molto lontano dal confine, sono troppi per essere casuali. Il ruolo dei collettivi cyber nel supporto ai dissidenti contro Putin

Kharkiv. C’è una campagna di sabotaggi in Russia che non si può spiegare con degli attacchi partiti dal territorio ucraino perché i siti in cui si sono verificati sono troppo lontani dal confine. Alcuni potrebbero essere incidenti, altre sono operazioni mirate e la domanda da farsi è se esista una “resistenza russa” che si spinge molto oltre i sit-in pacifisti oppure se c’è una rete ucraina che si è formata negli ultimi otto anni e opera oltreconfine. Due giorni fa c’è stato un incendio sul monte Yamantau, duemila chilometri dalla frontiera: Yamantau è una delle tante eredità militari dell’Urss ed è famoso dai tempi della Guerra fredda perché secondo gli americani c’è una base segreta (i russi non hanno mai smentito e dicono che si tratta di “informazioni sensibili”).

 

Il 21 aprile è scoppiato un incendio in un centro di ricerca aerospaziale a centottanta chilometri a nord di Mosca che ha fatto diciassette vittime. Mille chilometri più a est, a Perm, un deposito di munizioni è andato in fiamme. Nelle regioni russe (che confinano con l’Ucraina) di Belgorod, Bryansk e Kursk, oltre alle esplosioni nei depositi di carburante (queste sono compatibili con attacchi di elicotteri e droni dell’esercito di Kyiv) le autorità locali hanno denunciato sabotaggi alle ferrovie dovuti sia a manomissioni dei binari sia dei quadri elettrici. Alla fine di marzo era successo qualcosa di simile: una bomba rudimentale ha fatto saltare la centralina dei treni nella città russa di Kaluga. I binari che passano da lì arrivano a Bryansk e a Gomel per poi penetrare il territorio ucraino, l’esercito di Mosca li ha usati per trasportare le armi che servivano per la battaglia a nord di Kyiv.

 

“Quel genere di attacchi richiede la presenza sul campo, noi siamo utili perché passiamo dall’altra parte un manuale con foto, mappe a colori e tutorial video e facciamo anche lavori su misura: se ci mandi gli scatti, li studiamo e poi ti spieghiamo come muoverti”, dice al Foglio Vova, che fa parte del collettivo “cyber-partigiano” Zion. Questo gruppo hacker ucraino ha cominciato ad attaccare la Russia negli anni della guerra a bassa intensità in Donbas e quello che ci interessa capire è se la rete di contatti che hanno costruito oltreconfine è recente (successiva al 24 febbraio), oppure è stata coltivata negli anni. Se comunicano su piattaforme che tutelano l’anonimato (sul modello di WikiLeaks), oppure hanno dei contatti fidati in Russia con cui sono abituati a collaborare da tempo. “A queste domande non spetta a me rispondere”, dice Vova. Spetta al capo di Zion, lui lavora da Parigi per garantire che – qualsiasi cosa accada – l’organizzazione possa rimanere online.

 

Sappiamo che in Ucraina c’è una rete di spie e sabotatori del Cremlino che sono arrivati nel paese pochi mesi prima dell’invasione, oltre a quelli che operano sotto copertura dal 2014 e hanno solo finto di sposare il nuovo corso degli eventi senza mai smettere di lavorare per Vladimir Putin. Ma è difficile immaginare che in questi otto anni non ci siano stati, anche in direzione opposta, tentativi di infiltrare l’ex paese fratello diventato nemico. Il passato comune, i legami economici, i rapporti familiari e – nel caso della comunità russofona in Ucraina – la condivisione della lingua, implicano un vantaggio per entrambe le parti e una differenza rispetto ad altri conflitti: in questo caso i confini tra un possibile network di spie ucraine e una “resistenza russa” sono labili, le famiglie divise tra i due paesi sono molte e ci sono due milioni di ucraini che vivono stabilmente in Russia. Per Kyiv esiste un enorme bacino di possibili dissidenti rispetto alla guerra “fratricida” cui attingere.

 

“Gli ucraini che, come me, vivono in Russia e hanno famigliari sotto le bombe o a combattere al fronte sono potenzialmente pericolosi per il Cremlino e sono decisamente troppi per controllarli tutti”, dice Igor Volobuev. Lui è nato a Okhtyrka, nel nord-est dell’Ucraina. Ha costruito la sua carriera a Mosca e ha passato trent’anni tra la Gazprom e la Gazprombank. Era il vicepresidente responsabile delle relazioni istituzionali quando, il 24 febbraio: “Non ho esitato un istante e ho deciso di tornare a casa a combattere, dalla parte dell’Ucraina”. Volobuev dice di sentirsi in colpa ed essere in dissenso con il Cremlino dal 2014, e poi di provare stima per il dissidente Dmitri Chernyshev secondo cui il tempo delle proteste è finito, e i russi che non stanno dalla parte di Putin non dovrebbero aspettare invano una congiura di palazzo ma organizzarsi: Chernyshev ha fatto riferimento ad azioni di guerriglia interne e ha usato la parola “sabotaggi” – era il giorno in cui è stata data la notizia della bomba a Kaluga. Alla domanda se fosse in contatto con le autorità ucraine da tempo prima della sua fuga, Volobuev ha preferito non rispondere.

Di più su questi argomenti: