due pesi due misure
Dal Vietnam alla strage di Bucha: i colori del sangue
I macellai che hanno invaso l'Ucraina vengono premiati in Russia. Invece l’occidente ha sempre punito i criminali di guerra
Il 10 dicembre 1948 sembrava davvero che fosse giunta l’èra della pace perpetua. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamava solennemente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo “come l’ideale comune da conseguire da parte di tutti i popoli e tutte le nazioni… Considerando che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Il trionfo di Immanuel Kant, della Rivoluzione americana e di quella francese, di Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, che il 6 gennaio 1941 nel suo “discorso sulle quattro libertà” aveva dichiarato che “nessuna pace durevole poteva essere raggiunta al prezzo della libertà altrui” e aveva giurato: “Non ci lasceremo intimidire dalle minacce dei dittatori i quali considerano come una violazione del diritto internazionale e un atto di guerra l’aiuto da noi portato alle democrazie che hanno il coraggio di resistere alla loro aggressione”.
Il 24 febbraio 2022 l’attacco di Vladimir Putin all’Ucraina ha gettato nella polvere i sacri princìpi che la sconfitta del nazifascismo aveva innalzato sugli altari. La strage di Bucha, il massacro di civili inermi, il genocidio persino, c’è materia per la Corte penale internazionale. Davvero? Allora cominciamo dall’Iraq, ritorce Mosca. Bene, cominciamo pure, scopriremo che in effetti ci sono due pesi e due misure perché su un piatto della bilancia vengono gettate le medaglie per gli stupratori, sull’altro le condanne e la prigione per chi commette crimini di guerra.
Dall'Afghanistan alle torture di Abu Ghraib
Quando nella notte dell’11 marzo 2012 il sergente Robert Bales rientrò a Camp Belamby dopo la sua esplosione di ferocia a Naja Bien, non s’aspettava certo di essere accolto dai Berretti verdi con i fucili spianati. Il capitano Daniel Fields, non vedendolo rientrare alla base dopo diverse ore, aveva ordinato a una pattuglia di andarlo a cercare. Un pallone aerostatico con una telecamera termica alla fine aveva intercettato il segnale di Bales. Erano le 4 e 47, il sergente venne disarmato e messo immediatamente sotto chiave. Il suo compagno di bevute disse di averlo visto rientrare al campo per rifornirsi di munizioni e ricordava che si era vantato di aver ucciso alcuni afghani armati e adesso voleva finire il lavoro. Non sapeva l’ora perché era semi addormentato. Altri commilitoni testimoniarono che aveva lasciato la baracca in piena notte con in testa gli occhiali infrarossi e un caftano sopra la mimetica. Forse aveva alzato un po’ il gomito, ma sembrava lucido e determinato, convinto di avere una missione da compiere in sprezzo del pericolo. “Non m’importa di morire tanto la mia vita è uno schifo”, aveva confessato a un soldato che gli chiedeva che cosa volesse fare. Ma nessuno immaginava che il sergente Bales avrebbe assassinato a sangue freddo 16 civili afghani tra i quali donne e bambini. Il presidente Barack Obama ordinò un’inchiesta su quella che verrà conosciuta come la strage di Kandahar. Da Mosca Konstantin Dolgov, incaricato dei diritti dell’uomo del ministero degli Affari esteri, non si fece scappare l’occasione e dichiarò all’agenzia Novosti: “Questo atto inumano è allo stesso livello dei crimini più gravi perpetrati durante i conflitti armati’’. Il 23 agosto 2013 Bales, che secondo la corte marziale poteva rischiare la pena di morte, venne condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Nel 2020 il suo avvocato difensore si rivolse al presidente Trump per chiedere la grazia senza ottenere risposta.
Anche Lynndie England, la torturatrice di Abu Ghraib, è stata punita, forse troppo poco, e nonostante l’atto di contrizione che le ha ridotto la pena non si è mai pentita: “Loro ci ammazzavano, è come chiedere scusa al nemico”. Ma la sua vita agra è diventata sempre più magra, sola con il figlio avuto dal soldato che l’aveva indotta a infierire sui prigionieri. La donna, ritratta mentre teneva al guinzaglio un iracheno nudo imbrattato di fango e di feci, tira avanti a fatica a Fort Ashby, la cittadina della Virginia occidentale dove si era trasferita da piccola. Ansia, stress post traumatico, dipendenza dai farmaci, qualche lavoretto e assistenza sociale. Il suo drudo Charles Graner, l’aguzzino della prigione segreta, è stato condannato nel 2005 a dieci anni, ne ha scontati sei e mezzo, è uscito nell’agosto 2011 in libertà vigilata per altri quattro anni, poi si è inabissato. Charles e Lynndie si erano fotografati sorridenti davanti ai corpi accatastati in una piramide umana, è lui che ha ordito la oscena mascherata di un prigioniero incappucciato in un saio, in bilico su un piedistallo di cartone con le braccia aperte come fosse in croce. Con sadica ossessione frustavano, picchiavano, seviziavano, tra le “Cento giornate di Sodoma” e il porno pop. E’ andata meglio a Sabrina Harriman, la riservista ex pizzettara che sorrideva a denti spiegati accanto al cadavere di un iracheno. Lei chiese scusa, credettero al suo pentimento e le comminarono una condanna lievissima, appena sei mesi. Lo scandalo di Abu Ghraib risale al 2003, poco dopo l’invasione dell’Iraq. Venne rivelato dalla Cbs nel 2004, minimizzato dalle autorità e dallo stesso segretario alla Difesa Donald Rumsfeld (George W. Bush parlò di incidenti isolati). Ma l’esercito aprì gli occhi, mise in moto la corte marziale, non si sottrasse all’orrore e venne rivelato quel cuore di tenebra degno del colonnello Kurtz.
La “Brigata dei macellai” in Vietnam
Fu un elicottero americano a fermare la follia omicida a My Lai, una frazione del villaggio di Son My, 840 chilometri a nord di Saigon, quindi quasi ai confini con il Vietnam del nord. Il 16 marzo 1968 i soldati della compagnia Charlie, parte della 23esima divisione di fanteria agli ordini del tenente William Calley, sterminarono 504 civili inermi, soprattutto anziani, donne e bambini. Hugh Thompson che guidava un elicottero di ricognizione s’accorse di quel che stava accadendo e atterrò tra i fanti inebriati dal sangue ed eccitati dalla loro stessa violenza. Lawrence Colburn e Glenn Andreotta balzarono fuori dal velivolo con i mitra spianati ordinando di gettare le armi. Troppo tardi, salvarono solo undici vite. Il colonnello Oran Henderson venne incaricato di una prima indagine su quella che verrà chiamata la “Brigata dei macellai”. Colin Powell, allora maggiore, cercò di lavare i panni in famiglia, finché un giornalista indipendente, Seymour Hersh, non raccolse informazioni sufficienti per un vero e proprio scoop. Era trascorso un anno e gli fu difficile piazzare l’articolo. Time e Life lo rifiutarono, alla fine gli diede retta l’Associated Press, la più ufficiale delle agenzie di stampa americane. Nel frattempo un altro militare, Ron Ridenhour, venuto a conoscenza per via indiretta di quel che era successo a My Lai, aveva scritto una lettera al proprio rappresentante al Congresso. A quel punto nessuno poteva più gettare la polvere sotto il tappeto. Nel marzo 1970 l’esercito americano accusò 14 ufficiali di aver tenuto nascoste le informazioni. Un anno dopo il tenente William Calley venne condannato all’ergastolo per omicidio premeditato. Il giorno dopo il presidente Richard Nixon ordinò di metterlo agli arresti domiciliari che scontò per tre anni e mezzo, una decisione sciocca di un uomo nient’affatto sciocco, ma troppo gonfio della propria arroganza: finì solo per alimentare l’onda pacifista e l’onta sulle forze armate. Delitto e castigo vanno calibrati ben bene.
Il manto della vergogna è calato non solo sui protagonisti degli orrori commessi durante le guerre, ma anche su chi ha chiuso gli occhi, si è turato il naso, ha tappato le orecchie e sigillato la bocca, illudendosi che fosse possibile non sapere. Ci sono casi clamorosi come l’abbaglio degli intellettuali di sinistra per Pol Pot, lo spietato dittatore cambogiano che ha fatto uccidere un milione e mezzo di suoi compatrioti per “pulizia ideologica”. Nei quattro anni al potere tra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione. Era un rivoluzionario, il capo dei khmer rossi che all’inizio gli stessi americani avevano sostenuto contro il Vietnam del nord, come avverrà poco dopo con i talebani in Afghanistan. Tra chi non volle vedere c’era Tiziano Terzani che allora scriveva dall’estremo oriente per il tedesco Der Spiegel e per l’Espresso. Anni dopo ammise il suo errore. Nulla in confronto all’esercito israeliano a Beirut o ai caschi blu di Srebrenica.
Il massacro israeliano in Libano e il genocidio di Srebrenica
Nel 1982 il Libano era dilaniato dalla guerra civile. A giugno l’esercito israeliano aveva assediato la capitale bloccando 15 mila combattenti dell’Olp di Yasser Arafat insieme agli alleati del neonato Hezbollah, il Partito di Dio. La decisione di invadere il Libano, o meglio l’Operazione pace in Galilea, doveva creare una zona cuscinetto per mettere in sicurezza il nord di Israele bersagliato dai razzi katiusha che la Russia forniva alla Siria. Ma Ariel Sharon ministro della Difesa decise di dare un colpo finale arrivando fino a Beirut. Qui nella parte occidentale erano concentrati i profughi palestinesi e il quartier generale di Arafat. Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, aveva inviato il diplomatico Philip Habib. Una forza d’interposizione composta da Usa, Italia e Francia avrebbe dovuto garantire la tregua a condizione che l’Olp lasciasse il Libano. Ai primi di settembre l’evacuazione era formalmente completata, le truppe israeliane da un lato e quelle falangiste dall’altro circondarono i campi profughi per controllare che non si nascondessero palestinesi in armi. Ma la situazione precipitò il 14 settembre quando venne ucciso in un attentato il presidente libanese Bashir Gemayel, figlio di un fondatore delle Falangi cristiane. Due giorni dopo scattò la rappresaglia: le milizie maronite di Elie Hobeika alle 18 del 16 settembre entrarono nei campi profughi di Sabra e Shatila che gli israeliani avevano chiuso il giorno prima, installando posti di osservazione sui tetti degli edifici vicini. I falangisti uscirono solo dopo 48 ore. Il numero esatto delle vittime non è ancora chiaro, il procuratore capo dell’esercito libanese parlò allora di 460 morti, i servizi segreti israeliani invece stimano circa 700-800 morti. Il 28 settembre il premier Menachem Begin insediò una commissione d’inchiesta presieduta dal presidente della corte suprema Yuthak Kahan. Quattro mesi dopo, l’8 febbraio 1983, arrivarono le conclusioni. Elie Hobeika, comandante falangista, fu ritenuto responsabile diretto del massacro, le forze armate israeliane vennero giudicate “indirettamente responsabili”. Sharon, “personalmente responsabile”, si dimise. Per non aver assolto ai loro doveri il capo di stato maggiore Rafael Eitan, il capo dell’intelligence militare Yehoshua Saguy e il generale Amos Yaron vennero condannati.
L’esercito chiuse gli occhi, ma non Israele. A Srebrenica i caschi blu voltarono le spalle, non lo fecero le Nazioni Unite. Il massacro è costato la vita a 8.373 bosniaci solo perché musulmani o ritenuti tali. Unità guidate dal loro comandante Ratko Mladic e appoggiate dal gruppo paramilitare degli Scorpioni, l’11 luglio 1995 penetrano a Srebrenica, zona protetta dall’Onu sotto la tutela di un contingente olandese. I maschi dai 12 al 77 anni vennero separati, uccisi e gettati in fosse comuni. Bisognerà attendere il 2007 prima che i 21 colpevoli siano condannati dal Tribunale penale internazionale costituito presso l’Onu, tra questi Mladic (all’ergastolo) e Radovan Karadzic, presidente della Repubblica serba di Bosnia (40 anni). Il loro reato è genocidio, utilizzato per la prima volta dalla sua introduzione nel 1946. Un video con l’“evidenza dei fatti” è stato utilizzato come prova nel processo contro Slobodan Milosevic alla Corte internazionale dell’Aja.
I 600 Caschi blu e le tre compagnie olandesi non intervennero. Quando i serbi si avvicinarono all’enclave di Srebrenica, il colonnello olandese Karremans diede l’allarme e chiese un intervento aereo di supporto il 6 e l’8 luglio 1995, e altre due volte nel fatidico 11 luglio. Il generale olandese Nicolaï, che si trovava a Sarajevo, rifiutò di inoltrare la richiesta al generale francese Bernard Janvier nel quartier generale dell’Onu a Zagabria, perché le richieste non erano conformi agli accordi sulle richieste di intervento aereo: non si trattava di atti di guerra, non c’era ancora il fuoco della battaglia. Alla fine, solo due F-16 olandesi si levarono in volo per un attacco, praticamente senza alcun effetto. Una squadriglia di caccia americani non fu in grado di trovare la rotta. Nel frattempo Srebrenica era già caduta e l’intervento aereo annullato. Gran parte dei soldati olandesi si erano rifugiati nella base militare delle Nazioni Unite. Davanti alla minaccia e allo spiegamento di forze serbo-bosniache, i Caschi blu decisero di collaborare alla separazione di uomini e donne. Dall’Aja il governo ordinò un’inchiesta nel 1996. In seguito ai risultati, nel 2002 si dimise il primo ministro Wim Kok e tutto il suo gabinetto, dichiarandosi “responsabili, ma non colpevoli”. Le code giudiziarie sono durate fino al 2019.
Due pesi e due misure
Nulla è stato taciuto all’Aia, l’occidente non si è risparmiato nemmeno i più macabri dettagli per una sorta di accanimento nel disvelare il lato oscuro dell’umanità che viene pienamente alla luce con la guerra, con tutte le guerre, e investe tutta l’umanità, sotto qualsivoglia bandiera, dentro ogni confine, con qualsiasi colore della pelle, degli occhi, dei capelli. Tuttavia, alcuni crimini vengono puniti, altri restano impuniti, anzi vengono esaltati rovesciando la realtà. La differenza è tutta qua, una linea etica prima ancora che politica marca il confine tra civiltà e barbarie. Cosa accadrà al soldatino Konstantin Solovyov che racconta a una deliziata mammina i nuovi fantasiosi metodi di tortura russi? Non è diverso da Charles Graner, ma finirà anche lui in prigione?
In Russia i giornalisti che possano raccontare, denunciare, dimostrare, quando ci sono vengono privati del loro lavoro e della libertà. Gli ufficiali russi che arrestano un massacratore di civili, per lo più vengono marchiati come disertori e disfattisti. I soldati che rifiutano di passare con il carro armato sull’auto di una famiglia in fuga finiscono se va bene sotto processo. Due pesi e due misure tra la Russia e l’occidente, certo: il peso del delitto e la misura del castigo.