Addio big Mac a Mosca
McDonald's lascia la Russia: gli Archi dorati non brillano più
Il teorema di Thomas Friedman pubblicato sul New York Times 26 anni fa suonava così: “Due paesi che possiedono entrambi un McDonald’s non sono mai scesi in guerra l’uno contro l’altro”. La teoria ha retto fino all'invasione russa dell'Ucraina
“Gli archi dorati in Russia non brilleranno più”. Comincia così la lettera per annunciare la chiusura che Chris Kempczinski, amministratore delegato della filiale russa di McDonald’s, ha inviato lunedì ai 62 mila dipendenti degli 850 ristoranti che, fino allo scorso mese di marzo, hanno servito monumentali Big Mac ma anche varianti locali del menù del colosso di Cleveland, dai blinis al Beef à la Russe, sillabato alla francese che suona più elegante nel monumentale storico locale di piazza Pushkin, dove la multinazionale aprì i battenti il 31 gennaio del 1990, quando 31 mila moscoviti attesero pazienti in fila per ore per acquistare il sospirato hamburger.
Come non avverrà più perché McDonald’s, che ha sospeso l’attività a marzo dopo l’invasione dell’Ucraina, ha annunciato oggi che “l’attività in Russia non è più sostenibile né coerente con i nostri valori”. Di qui la decisione di vendere la catena a uno o più acquirenti locali, cercando di salvaguardare i diritti dei proprietari in franchising (un centinaio) e dei dipendenti. L’operazione sarà rapida anche se costosa perché l’uscita dalla Russia comporterà per una perdita di1,2 -1,4 miliardi di dollari. Al suo posto arriverà probabilmente qualche miliardario momentaneamente disoccupato. L’ex presidente Dmitri Medvedev è infatti sceso in campo suggerendo agli oligarchi cacciati dall’Occidente, di dedicarsi d’ora i poi a “panini e focacce”. Anzi, già si sussurra il nome della nuova catena: “Zio Vania”, tradito da quei nipoti irriverenti tornati a pvest.
C’è una gran voglia di esorcizzare lo strappo, ovvero di fare come se nulla fosse successo. E, probabilmente non a caso, tra le prime imprese che hanno riaperto bottega nei territori occupati nel Donetsk ci sono due ex McDonald’s prontamente ribattezzati DonMak: stesso menu, alla faccia dell’embargo. Ma anche stesso logo, quello con gli archi dorati che, almeno finora è stato il simbolo di una stagione di pace, sviluppata all’insegna della globalizzazione e che oggi suona invece come un monito sinistro.
Tutto o quasi è cambiato rispetto a 26 anni fa, quando Thomas Friedman pubblicò sul New York Times il “teorema degli Archi dorati” che suonava così: “Due paesi che possiedono entrambi un McDonald’s non sono mai scesi in guerra l’uno contro l’altro”. Ovvero, quando un paese raggiunge una crescita economica e un’apertura tale da permettere l’ascesa di una classe media abbastanza robusta per mantenere una catena di fast food, automaticamente diventa un “McDonald’s country”, un posto dove la gente gode di un certo benessere e non ha più alcun interesse a entrre in conflitto con un paese analogo. I legami economici tra i paesi diventano così stretti che diventa antieconomico, anzi assurdo, farsi la guerra. E non c’è simbolo più efficace di questa rivoluzione indolore degli archi dorati della catena di fast food, già simbolo universale dell’abbondanza di cibo nel dopoguerra, in Europa come in Usa. Al punto che per misurare il differente livello dell’inflazione tra i vari paesi il metro più efficace è il Mac Index, cioè il costo del panino alle varie latitudini. Alla faccia delle contestazioni contro il colonialismo culturale o lo sterminio dei bovini in Amazzonia che hanno costretto il gigante a correggere la rotta. La teoria di Friedman tutto sommato aveva retto, seppur con qualche eccezione (i bombardamenti in Serbia). E l’avanzata trionfale di McDonald’s nelle strade di Mosca e San Pietroburgo, benedetta a suo tempo dalla frequentazione del presidente Boris Eltsin, sembrava inarrestabile. Ma la storia non conosce la parola fine. McDonald’s fa le valigie da Mosca nel giorno in cui, ci informa il Financial Times, viene lanciata la Cool Cola, alternativa autarchica alla Coca-Cola, e Fancy al posto della Pepsi. E gli archi dorati, per ora, non brillano più.
L'editoriale dell'elefantino