Putin? Non è follia. È ideologia
Le semplificazioni del passato, la rilettura della Grande guerra patriottica a tutto vantaggio della Russia. Un senso distorto della storia: nella narrazione del Cremlino non c’è spazio per un’identità nazionale ucraina degna di rispetto
Le dichiarazioni dei giorni scorsi che provengono dalle amministrazioni dei territori ucraini occupati, nominate dai comandi dell’esercito russo, sembrano confermare logiche simili ad altri momenti storici, quando le frontiere venivano spostate, in nome della nazione o dell’irredentismo, a costo di sanguinose perdite. Nell’era post-moderna, in cui è ambientata la retrotopia putiniana, nel caso della guerra in Ucraina, sembrerebbe che una regione valga un’altra, come in una edizione ben più tragica del Risiko o del Monopoli. E’ il caso della regione di Cherson, mai nominata nelle rivendicazioni di Vladimir Putin e nemmeno del nazionalismo russo più radicale, ma che da quando è stata occupata dai russi è soggetta a un processo accelerato che dovrebbe portarla a essere parte della Federazione Russa. Infatti, nella regione è stata introdotta la circolazione del rublo, e Kirill Stremousov, un passato recente da attivista filo-russo in ambienti complottisti dallo scarso peso elettorale (alle elezioni del 2019 da candidato indipendente ha ottenuto l’1,74 per cento dei voti) e un presente da vice “governatore”, ha reso noto nei giorni scorsi che il futuro di Cherson è all’interno dei confini russi.
E non si tratta solo di un angolo di Ucraina meridionale, il cui unico interesse reale per Mosca risiede nel controllo dell’approvvigionamento idrico della Crimea tramite il Severo-Krymskij Kanal, e nemmeno di estendere i confini della già immensa Russia più a ovest: una delle concause di questa guerra risiede nelle rappresentazioni del passato e nell’uso pubblico della storia fatto da Vladimir Putin. Non vi è, nella narrazione proposta dal Cremlino, spazio per una identità nazionale ucraina degna di rispetto, perché si tratterebbe di un’entità artificiale, frutto di interventi esterni sull’unità primigenia degli slavo-orientali. Il presidente russo ritiene che le “rotture” avvenute nel corso dei secoli abbiano segnato la bol’šaja russkaja nacija (la grande nazione russa), dando modo ai tre rami in cui essa era strutturata, ovvero i grande-russi, i piccolo-russi e i bielorussi di diventare rispettivamente russi, ucraini e bielorussi. Questa lettura non è nuova e riprende, nei termini e nei contenuti, l’elaborazione ideologica e storiografica dell’Ottocento e d’inizio Novecento, volta però nei termini del nazionalismo russo della tarda età imperiale.
Le ragioni della differenziazione fra i tre popoli, affini ma non uguali, dovute al collasso del sistema dei principati della Rus’ avvenuto a seguito dell’invasione mongola e poi dei diversi percorsi avuti, con a ovest l’annessione dei territori delle odierne Bielorussia e Ucraina occidentale e centrale alla Polonia-Lituania e a est l’entrata nell’orbita moscovita, sono state oggetto di dibattiti storiografici importanti, su cui si son formati i principali studiosi dei secoli XIX e XX, ma sono state estremamente semplificate da Putin in una ricostruzione parziale. La nascita della Chiesa greco-cattolica, di rito e tradizioni ortodosse ma di obbedienza papale, nel 1596 con l’Unione di Brest è ridotta dal presidente a mero complotto polacco voluto per infrangere l’unità spirituale degli slavo-orientali, in un periodo in cui la Russia si trovava ai prodromi della lunga crisi dei Torbidi. Non a caso, i polacchi occupano un posto importante nell’interpretazione putiniana della minaccia occidentale, perché il Giorno dell’unità nazionale, celebrato dal 2005 il 4 novembre, coincide con la resa della guarnigione polacca di stanza al Cremlino di Mosca dopo l’entrata in città dei volontari al comando del principe Dmitrij Požarskij e del mercante Kuz’ma Minin, preludio all’ascesa al trono della dinastia dei Romanov. Il Giorno dell’unità nazionale per anni è stato anche un appuntamento dell’ultradestra russa, che organizzava in questa occasione la Russkij Marš (Marcia russa), sfilata all’insegna degli slogan xenofobi, neonazisti, antisemiti e sciovinisti, ma il ricordo di Požarskij e Minin è ancora oggi usato da Putin in varie occasioni, l’ultima volta per il discorso del 9 maggio di quest’anno.
Alla rottura dell’unità spirituale progettata e voluta dai polacchi segue la differenziazione etno-linguistica promossa dalle politiche prima dell’impero austro-ungarico in Galizia orientale (l’odierna Ucraina occidentale) e poi da Lenin e dai bolscevichi. Putin accusa di artificiosità queste differenze, di fatto indicando l’illegittimità dell’esistenza di una nazione distinta dalla bol’šaja russkaja nacija, e ne indica le origini prima nella promozione dell’identità ucraina nella Galizia orientale, e poi dalla costruzione dell’Unione Sovietica. Anche qui vi sono delle omissioni importanti: lo sviluppo dell’identità nazionale ucraina nella Galizia orientale era stato reso possibile anche dalle libertà civili garantite dal nuovo ordinamento dell’impero asburgico, diventato Austria-Ungheria dal 1867, e dalla presenza di uno spazio politico in cui organizzare partiti e associazioni era assolutamente legale; sorgono così a Leopoli e negli altri centri galiziani sale di lettura, biblioteche, scuole ucraine animate dall’attivismo di militanti a cui davano man forte spesso intellettuali esiliati dall’impero zarista. Putin cataloga come meri falli di reazione due provvedimenti repressivi adottati ai danni della lingua e della cultura ucraine, la circolare Valuev del 1863 e l’editto di Ems del 1876, i quali in realtà resero impossibile l’esistenza legale dell’identità ucraina nei confini imperiali. Ma è Lenin a essere la bestia nera del Cremlino, accusato di aver dato una forma statale a quei piccolo-russi traviati dalla propaganda, al fine di indebolire la Russia. Nel discorso del 21 febbraio Putin ha lanciato dei riferimenti alle repubbliche sorte dal crollo dell’impero, dalla rivoluzione e dalla guerra civile, che avrebbero fatto incetta di territori “storicamente russi”: un messaggio poco tranquillizzante per i vicini di Mosca, e parzialmente corretto nell’incontro del giorno dopo con il presidente dell’Azerbaigian Il’cham Aliev, durante il quale ha dichiarato di non aver intenzione di ricostruire una compagine imperiale. Restano però le parole e i messaggi: immediatamente dopo il discorso di Putin, sono apparse sui media ufficiali russi carte dell’Ucraina dove le varie regioni erano contrassegnate come “regali” ottenuti in periodi diversi dell’età sovietica.
La legittimazione storica viene cercata anche e soprattutto nella vittoria sovietica sulla Germania nazista, ormai, in una torsione le cui conseguenze si vedono oggi, letta alla luce dell’eterna lotta della nazione russa per affermare la propria indipendenza e missione storica. In Unione Sovietica non esisteva il culto della vittoria a cui assistiamo negli ultimi diciassette anni nella Federazione Russa, da quando nel 2005 il 9 maggio, Giornata della Vittoria, è diventata data sempre più carica di nuovi significati. Putin ha utilizzato e reinterpretato anche in questo caso eventi e decisioni precedenti la sua ascesa, perché la parata, durante l’età sovietica svoltasi dopo la guerra solo nel 1965, 1985 e 1990, diventa annuale in occasione del cinquantesimo della vittoria, nel 1995, grazie a Boris Eltsin. La decisione del primo presidente russo era legata alla necessità di fornire a un paese giovane ma dalla vasta storia un elemento unificante, trasformato poi durante la presidenza putiniana in qualcos’altro. Se la caratteristica di fondo del Den’ Pobedy (Giorno della Vittoria) è sempre stata il ricordo, spesso familiare, di una guerra drammatica che ha visto più di 27 milioni di vittime tra i cittadini sovietici, dall’adozione del Nastro di San Giorgio, avvenuto nel 2005 su iniziativa dell’agenzia di stampa Ria Novosti e poi diventato vero e proprio simbolo del 9 maggio, si è avuta una rilettura lenta ma capillare della Grande guerra patriottica.
L’accento, ancora presente alla fine degli anni Duemila, sulla memoria collettiva in grado di unire i popoli delle ex repubbliche sovietiche si è spostato sulla nazione russa, definita sempre più come vincitrice della guerra; l’omaggio verso gli Alleati e le forze della Resistenza in Europa e in Asia è ancora presente ma è diventato ulteriore occasione di polemica contro l’Occidente; e infine il 1945 è inserito, nella visione putiniana, in una lunga sequela di battaglie combattute dalla Russia contro un multiforme nemico proveniente da ovest. Nel discorso del 9 maggio 2022 l’Occidente è indicato come in preda a un profondo degrado etico, a differenza della Russia che si regge su “millenari valori” morali, facendo un po’ eco ai sermoni del patriarca Kirill, e i combattenti separatisti nel Donbas e i soldati russi in Ucraina sono stati presentati come degni eredi del generalissimo Aleksandr Suvorov, del comandante in capo dell’esercito nella Prima guerra mondiale Aleksej Brusilov, del generale sovietico Nikolaj Vatutin, e ancora prima di Vladimiro il Grande, in una linea senza soluzione di continuità e presentata come verità storica, quando in realtà si basa su una dimensione profondamente astorica e atemporale. Non vi è spazio per il ricordo delle tragedie e delle vittime, se non in modo fugace, perché nella rilettura promossa dal Cremlino non vi è spazio per le sconfitte, in un rifiuto alquanto indicativo e che rende questa visione nazionalista post-moderna assai peculiare.
Quel che manca, nel culto astorico della storia propugnato da Putin, è lo spazio per la complessità (termine alquanto discusso oggi in Italia) del passato russo, che ha attraversato fasi diverse, si è intersecato con altri popoli e culture, influenzandole e venendone influenzato. Questa mancanza consente una percezione basata su eventi e fatti mescolati e presentati all’uopo per giustificare le mosse intraprese. Ad aggravare la situazione è l’idea, più o meno esplicita nei discorsi e negli scritti del presidente, rivendicata con forza da alcuni esponenti ultranazionalisti ora in gran spolvero, della questione ucraina come problema interno della nazione russa, e la cui “risoluzione finale”, per usare le parole del pubblicista d’estrema destra Piotr Akopov, sarebbe ora nelle mani di Putin e nell’operato delle forze armate russe. La “deucrainizzazione” propugnata da un altro pubblicista molto poco democratico, Timofej Sergejcev, assume in questo senso un significato tetro e di cui sarà necessario tener conto nei prossimi sviluppi di guerra.
L’autore è visiting professor di Storia dell’Europa orientale all’Università di Parma.