In Libano il voto è diviso, ma il partito di Hezbollah rimane forte
“Mi hanno promesso dei soldi se li avessi votati e non mi hanno dato niente. Ma vedrai che il mio diritto non andrà sprecato”, urla una donna al telefono. È così che la campagna elettorale si è mossa, chiedendo voti in cambio di diritti, bisogni quotidiani e basici: il pane, le medicine, il denaro
Beirut, Libano. Con un’affluenza ai minimi storici intorno a 41 per cento, le elezioni per il rinnovo dei 128 membri del Parlamento libanese di domenica 15 maggio e di cui non è ancora finito lo spoglio, evidenziano una apparente disillusione verso le élite e un nuovo spiraglio verso il cambiamento. Tuttavia, alla domanda su qual è il verso da dare a questo vento del cambiamento d’ora in avanti e dopo i tre anni appena vissuti, le persone all’uscita dal seggio elettorale col dito coperto di inchiostro – qui funziona che a ciascun elettore, una volta votato, viene chiesto di firmare e intingere il proprio dito nell’inchiostro blu a prova dell’avvenuta votazione – hanno risposto in modo diverso a seconda delle zone della città in cui si trovavano, confermando la complessità della società libanese. “È per la resistenza”, si sentiva a Dahyieh, roccaforte di Hezbollah a Beirut; “Dobbiamo rompere lo strapotere di Hezbollah in Libano, quello ci renderà liberi”, rispondevano le Forze libanesi nel quartiere di Ashrafieh; “Non c’è un piano comune tra noi che ci presentiamo in politica per la prima volta ed è normale che sia così, non possiamo volere tutti le stesse cose. Intanto, però, iniziamo a fare breccia nello schema politico precostituito. Poi metteremo in pratica le idee”, dalla voce di uno dei nuovi candidati indipendenti.
Alle prime elezioni dalle proteste del 17 ottobre 2019, dalla crisi economica e bancaria che ha impedito a lungo ai libanesi di poter accedere ai propri risparmi, dall’inflazione oltre il 200 per cento, dall’esplosione al porto di Beirut, dalla crisi della benzina, delle medicine, dei passaporti e delle migrazioni illegali, circa quattro milioni di cittadini si sono iscritti alle liste elettorali, mentre 245mila erano quelli della cosiddetta diaspora libanese. In Libano succede qualcosa di particolare, infatti: a fronte dei sei milioni di cittadini che risiedono nel paese e il milione di rifugiati palestinesi e siriani all’interno dei campi, circa 14 milioni di libanesi vivono al di fuori del Libano tra Francia, Australia, Brasile e Canada, per citare le comunità più grandi. Dalle prime proiezioni ancora parziali, il volto del Libano non sembra cambiare: il partito sciita di Hezbollah rimane forte, è la coalizione del precedente parlamento a mostrare delle crepe, mentre i cristiani delle Forze libanesi si sono rafforzati soprattutto dopo le indicazioni dell’Arabia Saudita di sostenerle in funziona anti-iraniana e soprattutto dopo la decisione di gennaio dell’ex primo ministro Saad Hariri di non correre per nessun seggio in queste elezioni, alimentando una forte incertezza sulla distribuzione delle preferenze sunnite in parlamento. A proposito di questo, è da segnalare che i supporters di Hariri nel quartiere sunnita di Tarik Jdideh a Beirut hanno organizzato un vero e proprio boicottaggio elettorale, installando piscine gonfiabili per le strade in un’atmosfera di festa tra giochi e musica.
Nella capitale, nel corso della giornata non sono mancati gli scontri tra i sostenitori dei diversi partiti: a Zahlé nella zona della Bekaa al confine con la Siria, a Tripoli nel nord del paese, a Tiro e nei sobborghi del sud, nella stessa Beirut. Di fronte a una scuola sunnita, una donna con il dito coperto di inchiostro – segno che aveva già votato – al telefono urlava: “Mi hanno promesso dei soldi se li avessi votati e non mi hanno dato niente. Ma vedrai che il mio diritto non andrà sprecato”. È così che la campagna elettorale si è mossa, chiedendo voti in cambio di diritti, bisogni quotidiani e basici: il pane, le medicine, il denaro. In una famiglia composta da quattro persone, sono state espresse quattro preferenze diverse.
L'editoriale dell'elefantino