Pechino vuole l'isolamento
La strategia Zero Covid cinese non è (più) una misura sanitaria.
Con la scusa del virus la seconda potenza del mondo fa scappare gli stranieri e obbliga i cittadini a restare in lockdown. La crescita rallenta, la produzione industriale ostaggio delle politiche di Xi Jinping. E’ l’elefante nella stanza dell'economia mondiale
La strategia Zero Covid della Cina non è più una misura d’emergenza per contenere il virus, un passaggio sanitario obbligato dalle circostanze: è lì per restare. E sta assumendo sempre di più i contorni di una politica ben precisa, forse un primo passo verso il grande decoupling, l’isolamento della Cina dal resto del mondo. I segnali ci sono tutti: davanti al comitato permanente del Politburo, il leader Xi Jinping ha ripetuto che l’approccio cinese è “scientifico ed efficace”, smentendo di fatto chi sperava in una parziale modifica della strategia. Restano invece i campi di isolamento simili a prigioni, le gabbie attorno alle porte d’ingresso dei condomini, la distribuzione a fatica del cibo per chi è isolato. Ma c’è di più: da qualche settimana le autorità cinesi hanno iniziato a mettere molte restrizioni sull’emissione di nuovi passaporti o autorizzazioni all’espatrio.
L’Autorità dell’immigrazione ha fatto sapere in una dichiarazione che sta cercando di evitare i viaggi all’estero considerati “non necessari”, per tentare di contenere le infezioni “di importazione”, ma di nuovo è il virus a dare alla Cina una giustificazione in più per aumentare il controllo sui suoi cittadini, senza che sia dato spazio a misure alternative. Il piano vaccinale è praticamente fermo, e “l’orgoglio nazionale impedisce alla Cina di importare vaccini occidentali ma, nonostante gli enormi investimenti da parte del settore statale e privato, i suoi laboratori non hanno ancora trovato un equivalente cinese”, ha scritto lo scienziato politico di Oxford, Rana Mitter, sul Guardian. “Non c’è una politica chiara su come la Cina possa riaprire i suoi confini per convivere con un virus che gli scienziati si aspettano diventi endemico, o su come affrontarlo”, ma è “improbabile”, scrive Mitter, che tale riapertura “avvenga nel 2022”. E infatti Pechino ha annunciato che non ospiterà la Coppa d’Asia di calcio, la seguitissima competizione asiatica che si sarebbe dovuta tenere tra circa un anno in dieci nuovi stadi costruiti o ristrutturati ad hoc in altrettante località cinesi. Nonostante gli annunci di parziali riaperture a Shanghai, milioni di persone sono ancora bloccate da un lockdown che va avanti da più di un mese nella capitale finanziaria e produttiva del paese, magari per un caso di Covid nel proprio condominio o nell’attesa di nuovi test di massa nei singoli quartieri. Il costo dell’operazione è altissimo e, secondo gli standard occidentali, anche poco comprensibile. Da giorni infatti circolano i dati economici cinesi e non sono per niente rassicuranti: gli ultimi, quelli di aprile, dicono che la produzione industriale si è contratta del 2,9 per cento e il dato crolla nell’area di Shanghai, cuore della cosiddetta “fabbrica del mondo” dove avevano investito moltissime aziende internazionali, e dove il mese scorso la produzione di Tesla e Volkswagen si è quasi completamente interrotta.
Crollano i consumi, uno dei fattori fondamentali della crescita del paese: le vendite al dettaglio sono scese dell’11,1 per cento su base annua. La paura di un lockdown simile a quello di Shanghai ha contagiato anche la capitale Pechino, dove stanno riaprendo i centri di isolamento di massa e le autorità cercano di imporre restrizioni a zone, ma raggiungere contagi-zero è praticamente impossibile. L’ha detto qualche giorno fa anche il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, in passato accusato di aver elogiato troppo il “modello cinese” di contenimento della pandemia: “La strategia Zero Covid non è sostenibile”, ma le sue parole sono state dopo poco censurate dai social network cinesi. L’ossessione di raggiungere il risultato – sconfiggere il virus – sta pericolosamente generando proteste da parte dei residenti. Gli stranieri in Cina cercano di andare via, anche i più innamorati del modello cinese stanno realizzando di aver investito in un paese autoritario che trasforma le leggi come vuole – e su questo nemmeno i diplomatici locali possono qualcosa; le compagnie internazionali approvano piani di delocalizzazione, la fiducia nell’economia cinese crolla. L’ostilità è anche interna: nel fine settimana ci sono state manifestazioni da parte degli studenti all’Università di Pechino, contrari ai test quotidiani e alle ulteriori restrizioni dei loro movimenti. Per la leadership è un problema: si avvicina l’anniversario del 4 giugno 1989, il giorno del massacro di piazza Tienanmen, e le proteste universitarie diventano particolarmente simboliche. Tutto influirà sul congresso del Partito in autunno, quello che dovrebbe confermare Xi Jinping leader per un inedito terzo mandato.
L’ex primo ministro australiano, il laburista Kevin Rudd, ora presidente della ong Asia Society, ha detto ieri a un evento pubblico a New York che oltre all’aumento dei prezzi delle materie prime a livello globale e all’interruzione delle catene di approvvigionamento dovuti anche all’invasione russa dell’Ucraina, “il più grande elefante nella stanza, nel 2022, è l’economia cinese”. La seconda economia del mondo si sta isolando sempre di più, e le conseguenze le sentiremo presto.