sotto le bombe
Fuga dai russi. Anatoly ci racconta com'è scappato da Kherson
Mosca è capace di prendere solo città distrutte (come Mariupol) o vuote. Molti scelgono di fuggire, anche se questo comporta passare su ponti minati o tra piogge di proiettili
Si scappa da Kherson anche sui ponti minati e sotto le bombe. Anatoly ci ha provato tre volte, la settimana scorsa ci è riuscito. La strada che ha percorso passa per Beryslav, attraversa il ponte dove ci sono le mine e finisce dentro “la zona grigia” (quella dei villaggi disabitati tra l’ultimo posto di blocco russo e il primo dei militari ucraini). Ieri, su quella strada, i cannoni russi hanno sparato contro un corteo di auto in fuga: hanno fatto tre morti e sei feriti. Anatoly parla a voce bassa, si interrompe e poi ricomincia: ha vissuto sotto l’occupazione per due mesi e mezzo, e racconta al Foglio che nella città dove gli abitanti manifestano una volta alla settimana sventolando la bandiera ucraina i russi hanno paura di tutti.
“Alla fine erano così paranoici da costringerci a rimanere chiusi in casa, non potevi spostarti neppure da un isolato a un altro e questo serviva a evitare che ci organizzassimo tra di noi”. Anche se conquistare Kherson è stato semplice (i soldati di Putin hanno potuto contare sull’effetto sorpresa e il primo giorno dell’invasione le città ucraine non erano difese), controllarla è impossibile. I russi sul campo sono scoordinati e, per esasperazione, alcuni preferiscono che i residenti scappino purché la smettano di complottare contro di loro e passare le posizioni all’esercito di Kyiv. L’armata di Mosca è capace di prendere solo città distrutte (come Mariupol) o vuote. “I miei vicini sono spariti, i cortili e le strade sono deserte: prima di partire gli unici rumori che si sentivano erano quelli dei russi che sfondavano le porte per saccheggiare gli appartamenti”.
A Kherson hanno imposto il rublo, ma non c’è più nulla da comprare. Una settimana fa Kirill Stremousov, un filo-russo che è nell’amministrazione cittadina per conto di Mosca, ha detto che non ci sarà nessun referendum per diventare una “Repubblica popolare” sul modello di quelle separatiste di Donetsk e Lugansk: il braccio politico degli occupanti chiede una vera e propria annessione. Quel giorno, Anatoly ha deciso di fuggire e che il tentativo non sarebbe stato come i precedenti, nel senso che non si sarebbe fermato davanti ai pericoli. Era in una carovana con altre auto, ha passato dieci posti di blocco: “con alcuni non è stato necessario dare una spiegazione, mentire sulla destinazione finale, anzi ci hanno detto che ci lasciavano andare senza troppe domande”. Rimanevano da fare i controlli di routine: lo hanno perquisito, hanno guardato il rullino foto dello smartphone e lo hanno fatto spogliare.
Poi ha aspettato sei ore fermo prima di poter entrare a Beryslav: “All’alba ci siamo messi in macchina, fino al ponte bisognava schiacciare il pedale sull'acceleratore. Sul ponte bisognava stare attenti perché è una zona minata e ci sono già state delle vittime. Appena superato, siamo stati bombardati: gli altri alla guida erano in preda al panico, hanno smesso di curarsi delle mine, sfrecciavano. E’ una strada disastrata dai combattimenti e io ho forato la gomma”. Ha tirato fuori il cric e la ruota di scorta dal bagagliaio sotto le bombe: “Stavo fissando i bulloni e vedevo i proiettili atterrare sul lato destro del minivan. Poco più in là è arrivato un calibro 152 millimetri dell’artiglieria pesante che ha fatto una voragine. Si alzavano le nuvole di polvere e di fumo e io non riuscivo più a distinguere il rombo dei motori dai mortai”. E’ risalito in macchina con la ruota fissata per metà e ha iniziato a correre: “Una delle auto che era con me è stata colpita, non mi sono potuto fermare, nessuno poteva. Non so nulla di che fine abbiano fatto quelle persone”. Lui era libero, ha continuato a muoversi in velocità: direzione Kryvyi Rih. Ha incontrato il primo posto di blocco ucraino. “Perdere la paura è stata una sensazione incredibile”.