Back in the USSR. Le sanzioni spingono la Russia indietro di trent'anni

Luciano Capone

Autarchia, inflazione, recessione economica e regressione tecnologica. Più disoccupazione, meno produttività, salari più bassi. “La profondità di questa crisi è paragonabile a quelle degli anni 90”

uNei giorni scorsi il deputato della Duma Mikhail Sheremet ha proposto di ripristinare la bandiera sovietica al posto del tricolore russo, come “simbolo di una superpotenza in ascesa”. Un mese fa il Partito comunista russo aveva depositato una legge sul tema. Le cose a Mosca, in un certo senso, stanno andando in quella direzione, anche se non proprio come i nazionalisti e i nostalgici auspicano: non riguarda la bandiera, ma l’industria. Il ritorno al periodo sovietico non è quello di una “superpotenza in ascesa”, ma di un’economia in declino. Le sanzioni occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina sono senza precedenti e stanno infliggendo danni enormi all’economia russa, molto più profondi e duraturi di quelli prodotti dalle crisi economiche degli ultimi 30 anni, dal default del 1998 alla crisi globale del 2009, dalla recessione del 2015 alla pandemia di Covid-19.

 

Se da quelle crisi la Russia ne è uscita in tempi rapidi, seppure con un’economia stagnante e poco dinamica, stavolta si trova di fronte a una trasformazione epocale. Per certi versi analoga a quella strutturale dei primi anni 90 dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il passaggio all’economia di mercato, ma di segno opposto. Ciò che dovrà affrontare la Russia, isolata dagli scambi finanziari e commerciali con l’occidente, è una regressione. Non solo in termini di livelli di pil (le stime internazionali variano dal -8,5% al -15%, quelle della Banca centrale russa tra -8 e -12%) e di perdita di potere d’acquisto (l’inflazione prevista dalla Banca centrale russa è del 18-23%), ma anche in termini tecnologici. I russi potranno cioè comprare molte meno cose e di qualità nettamente peggiore, sempre se le troveranno. Esattamente la condizione che viveva un cittadino medio sovietico. Questo perché fondamentalmente la Russia esporta gas, petrolio e materie prime e importa beni di consumo o comunque componenti necessari per la sua produzione domestica. Con il blocco delle importazioni a causa delle sanzioni, il Cremlino è costretto a una politica autarchica di “import substitution”: fare in casa ciò che veniva acquistato dall’estero. Si tratta di una politica di sviluppo adottata molto in Sud America, con l’obiettivo di modernizzare l’economia facendo sviluppare un’industria domestica attraverso barriere e dazi sulle importazioni.

 

I risultati non sono stati eccezionali, dice al Foglio l’economista Vito Tanzi, direttore per quasi vent’anni del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale: “Nell’America Latina e specialmente in Argentina negli anni Sessanta la politica di sostituzione di importazioni ha avuto conseguenze nocive perché ha cercato di produrre domesticamente e a costi enormi prodotti (automobili etc.) che potevano essere importate a prezzo molto più basso. Questa politica ha prodotto problemi per la bilancia dei pagamenti e per i conti pubblici”. Ma ora rispetto al passato “le economie sono più globalizzate e dipendono di più dai rapporti con altri paesi”, questo vuol dire che i costi di una sostituzione delle importazioni peraltro così estesa e improvvisa sono molto più elevati. E sebbene “la Russia sia un paese molto più grande e con risorse naturali e tecniche più varie rispetto all’Argentina”, dice Tanzi, “potrebbe riuscire a sostituire molte importazioni con produzione domestica, ma solo nel lungo termine. Che può voler dire molti anni e con costi molto elevati”.  Per l’economista Branko Milanovic, quello russo è un esperimento singolare nella storia: si tratta del primo deliberato caso di “sostituzione delle importazioni tecnologicamente regressiva”. Mentre cioè tradizionalmente l’obiettivo di queste politiche protezioniste era modernizzare la produzione locale ai livelli di quelle avanzate, in questo caso accadrà l’esatto contrario. Dopo 30 anni di integrazione nell’economia globale, la Russia è diventata completamente dipendente dalle tecnologie estere anche perché ha dovuto abbandonare interi settori industriali di epoca sovietica perché obsoleti e non competitivi. Ora è costretta a fare il percorso inverso, con il risultato che “quando le sanzioni verranno rimosse – scrive Milanovic – la Russia si troverà, nello scenario più ottimistico, nelle stesse condizioni dell’Unione sovietica negli anni 80: avrà una base industriale che però non sarà competitiva a livello internazionale”.

 

Ma prima di arrivare a quel punto, ci sarà da fare una traversata nel deserto. L’interruzione delle forniture occidentali è uno choc che impone conseguenze pesanti e immediate. Uno dei settori più colpiti è quello aereo, che vedrà una sorta di cannibalizzazione dei velivoli stranieri per mancanza di pezzi di ricambio come pneumatici, guarnizioni e freni, per non parlare della tecnologia di comunicazione e dei software. Secondo il ministero dei Trasporti su 1.287 aeromobili che operano in Russia solo 470 sono stati prodotti nella federazione, ed entro il 2025 circa un terzo della flotta stranierà verrà smantellata, una quota che nello scenario pessimistico arriva tra metà e i due terzi degli aerei. Questo comporta una perdita di passeggeri nei prossimi anni tra il 25% e il 40%. Per ritornare ai livelli precedenti, la strategia del governo russo è, attraverso un intervento industriale diretto, di aumentare il tasso di produzione di aerei del 600% in otto anni: un obiettivo che pare irraggiungibile, soprattutto in un contesto di sanzioni che perdurano. La stessa dinamica è visibile nell’industria automobilistica. Già ora i prezzi dei pezzi di ricambio sono schizzati alle stelle, con aumenti medi del 30% che in alcuni casi, riporta il quotidiano economico russo Kommersant, toccano l’83%. Con ovvie ricadute anche sui prezzi delle assicurazioni. Nel mese di aprile le vendite sono crollate del 78,5% rispetto all’anno precedente, dopo il crollo del 63% a marzo. Ma i problemi maggiori riguardano la produzione di auto, una cosa che non veniva granché bene anche nell’Unione Sovietica. L’uscita di scena di Renault, che ha ceduto per un rublo le attività allo stato pone un problema serio, perché nessuno sa bene cosa fare. Le alternative sono cercare un partner in Cina in grado di fare le automobili, tornare a produrre marchi e modelli vecchi, oppure usare gli stabilimenti per produrre qualcosa di completamente diverso (ma a quel punto non si sa da dove arriveranno le automobili). Una cosa è certa: i russi avranno auto più costose e più scadenti, cioè meno sicure. Con un decreto del 12 maggio, a causa della mancanza di componenti dall’occidente, il governo ha abbassato gli standard per la produzione di veicoli: non saranno più obbligatori l’Abs, l’airbag, il pretensionatore delle cinture di sicurezza. E anche gli standard ambientali tornano ai requisiti del 1988, consentendo quindi anche la produzione di veicoli Euro 0.

 

Nelle istituzioni russe c’è chi è consapevole di cosa sta accadendo. La governatrice della Banca centrale russa Elvira Nabiullina ha detto chiaramente che l’economia russa dovrà adattarsi “alla nuova realtà” passando “alla produzione di prodotti di generazioni precedenti”. In maniera più dettagliata, sul sito Econs.online gestito dallo staff della Banca centrale russa, il direttore del dipartimento di Ricerca della Bcr Aleksandr Morozov spiega che a causa delle sanzioni “la profondità della recessione economica iniziata può essere paragonabile alla crisi degli anni 90”, quella appunto dopo il collasso dell’Urss. Secondo l’alto dirigente della banca centrale, “la trasformazione strutturale dell’economia russa nel contesto di restrizioni esterne prolungate sarà accompagnata da una regressione tecnologica in molti settori”. In una prima fase, esaurite le scorte, ci sarà “un forte calo della produzione” dovuta alla scarsità di componenti e pezzi di ricambio; in una seconda fase, “sarà chiaro quali filiere di produzione sono state conservate e quali no”, in cui si svilupperanno le società che fanno manutenzione e assistenza; in una terza fase ci sarà una “industrializzazione inversa, ovvero un’industrializzazione basata sullo sviluppo di tecnologie meno avanzate”; infine ci sarà un “completamento dell’adeguamento strutturale”, con un nuovo equilibrio su una base “meno avanzata”. Insomma, la Russia dovrà faticare molto per tornare indietro. Dovrà fare sforzi enormi per non peggiorare troppo. Ma non è affatto detto che ci riesca.

 

La Banca di Finlandia ha appena pubblicato uno studio sulle possibilità per la Russia di sostituire le importazioni, o attraverso partner come la Cina o attraverso la produzione domestica. La situazione è molto complicata su entrambi i fronti. Da un lato, la Cina non è in grado di sostituire gli input occidentali in molti settori sia per la qualità, più scadente, sia per la quantità; inoltre la Cina già fornisce il 25% delle importazioni russe, facendo della Russia uno dei paesi più dipendenti da Pechino insieme alla Cambogia. Quanto allo sviluppo del “Made in Russia”, la sostituzione delle importazioni è stata la strategia principale di politica economica del regime di Vladimir Putin dopo l’annessione illegale della Crimea del 2014, sempre per rispondere alle sanzioni occidentali. Ma anche dopo l’annuncio di questa grande politica autarchica, la quota aggregata di input importati nella produzione è rimasta praticamente invariata, attorno al 12% ma molto concentrata in specifici settori soprattutto ad alto contenuto tecnologico. Il Cremlino, insomma, non ha ridotto per nulla la sua dipendenza dalle importazioni. Lo sforzo maggiore è stato fatto nell’agricoltura: l’obiettivo era raggiungere la massima autosufficienza. Ma la conseguenza principale, ricorda la Banca di Finlandia, è che “l’arresto delle importazioni di generi alimentari ha aumentato i prezzi al consumo e ridotto il benessere dei consumatori in Russia”. Se questi sono i risultati nell’agricoltura, c’è da farsi poche illusioni sulla capacità di sostituire le importazioni in settori dove la Russia è molto più dipendente dall’Europa e a maggiore contenuto tecnologico (elettronica, meccanica, informatica, farmaceutica, etc.).

 

Sono chiare anche le conseguenze sul mercato del lavoro: aumenterà la disoccupazione (dal 4,8% al 6,7% secondo il ministero dello Sviluppo economico russo, mentre il Fmi prevede un raddoppio al 9,3%), si ridurrà la produttività e, di conseguenza, i salari. Per i quali, tra l’altro, con un’inflazione al 20% basterà non indicizzare i pagamenti nominali per ridurre presto e molto il costo del lavoro. I settori più colpiti saranno quelli più moderni e tra i lavoratori quelli più istruiti: la mancanza di input tecnologici, produrrà anche una sottoutilizzazione del capitale umano perché i lavoratori dovranno impegnarsi in occupazioni meno produttive e che non corrispondono al livello di istruzione. Oppure dovranno emigrare, cosa che peraltro in tanti hanno già fatto subito dopo l’inizio della guerra. “Si tornerà indietro: quando fai import substitution su una così vasta scala sostanzialmente è questo ciò che ottieni. Fai le cose in maniera meno efficiente, altrimenti se fossi stato capace di farle bene non le avresti importate – dice al Foglio Konstantin Sonin, economista russo dell’Università di Chicago –. Qualcuno nell’entourage di Putin parla di ‘import substitution’ come qualcosa di buono, ma senza una reale comprensione di cosa significhi per i consumi e la produzione”.

 

Negli apparati del regime, almeno tra i più avveduti e con un contatto con la realtà, c’è consapevolezza di cosa l’isolamento comporti per la crescita economica. E pertanto per recuperare una parte di produttività e pil potenziale c’è chi suggerisce profonde riforme strutturali pro mercato. Morozov, della Banca centrale russa, scrive che a fianco al ruolo dello stato per guidare la trasformazione della struttura industriale sarà necessario liberare il motore del settore privato: “Ciò implica una liberalizzazione economica su larga scala, una riduzione radicale della regolamentazione e del controllo statale e una riduzione del carico fiscale”. Dello stesso avviso è Ivan Timofeev, del Russian International Affairs Council (Riac), un importante think tank legato al Cremlino, che in un’analisi sui gravi rischi esistenziali che l’invasione dell’Ucraina ha comportato per la Russia, scrive che “liberalizzazione dell’economia, riduzione delle barriere regolatorie e delle tasse possono mitigare la crisi”, ma allo stesso tempo osserva come “negli ultimi cento anni la Russia non ha vissuto periodi in cui la liberalizzazione, piuttosto che la mobilitazione, sia stata la reazione all’isolamento e alla crisi”.  E il prof. Sonin non pensa certo che accadrà questa volta, anzi è più probabile che succederà il contrario: “Mi aspetto che introdurranno una gestione diretta delle risorse entro quest’anno – dice l’economista al Foglio – insomma, ricreeranno un Gosplan”, che era il Comitato statale per la pianificazione economica dell’Urss. Le riforme strutturali e pro mercato, dice Sonin “non sono nel loro orizzonte: centralizzeranno le decisioni e introdurranno un controllo dei prezzi, cosa che non hanno ancora fatto e ne sono sorpreso”.

 

Ci sarà quindi una sorta di ritorno all’Unione Sovietica, anche se non del tipo che Putin immaginava: la regressione economica e l’arretratezza tecnologica più che la superpotenza militare e geopolitica. Le sanzioni occidentali stanno funzionando anche in maniera inaspettata, come ha scritto Paul Krugman sul New York Times, e produrranno conseguenze durature sulla Russia, ridimensionandone le ambizioni e il ruolo globale. Ma non c’è da aspettarsi molto di più rispetto a una fine immediata guerra: “Perché le sanzioni non sono bombe – dice Sonin –. La situazione militare è più importante di quella economica, perché quest’ultima non si sviluppa così velocemente”. E ciò vuol dire che “Putin verrà fermato solo dalla forza: l’unico limite a Putin sono le armi nelle mani degli ucraini”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali