Erano diplomatici e persuasori. Ecco come negoziavano i predecessori di Lavrov al Cremlino
Da Kosygin a Shevardnadze, la Russia nel ’900 ha scampato la guerra nucleare grazie ai suoi funzionari e ambasciatori. Il prestigio di un secolo cancellato in poche settimane
Ero al ginnasio quando sentii parlare per la prima volta di Kosygin. Un compagno di scuola mi disse che quello che sembrava sino ad allora un grigio funzionario sovietico si era rivelato un grande: era riuscito a ottenere un cessate il fuoco, e poi a mediare la pace tra India e Pakistan. Il mio compagno non era di sinistra, non ricordo avesse la minima simpatia per l’Unione sovietica. Forse esprimeva un’opinione sentita in casa. O se l’era fatta da solo, leggendo i giornali. Da un’altra compagna di scuola avevo sentito parlare per la prima volta di un altro protagonista della diplomazia sovietica, Anastas Mikojan. Gaspara Pajetta raccontava di quando, in vacanza con suo padre sul Mar Nero, vedevano in spiaggia Mikojan trascinare un grosso sacco di granchi. La “fonte” era in questo caso politica, che più politicamente identificati di così non si poteva. Ma l’aneddoto era delicatamente apolitico.
Il colloquio tra Kosygin e Mao, un capolavoro di abilità diplomatica e fermezza,mentre Cina e Urss erano a un passo dalla guerra atomica
Aleksej Nikolaevich Kosygin, primo ministro dell’Urss dal 1964 al 1980, era stato, oltre che un riformatore in economia, un diplomatico coi fiocchi. Mi è capitato di trovare frugando in internet, negli archivi del Wilson Center, una trascrizione dattiloscritta, in polacco (chissà come e dove ottenuta) della lunga conversazione che ebbe con Mao e l’intero ufficio politico cinese quando nel 1965, sulla via del ritorno dalla missione pacificatrice tra India e Pakistan, fece tappa a Pechino. E’ un capolavoro storico di abilità diplomatica, e insieme fermezza, in un momento in cui Cina e Urss erano a un passo dalla guerra atomica. La crisi ucraina avrebbe bisogno di un Kosygin, mi viene da pensare.
Il flash mi riporta a un’epoca in cui i ragazzi, oltre a fare i ragazzi, studiavano e discutevano di tutto, con passione e serietà. Altro che risse da stadio e talk-show! Sarà che sono stato particolarmente fortunato. Al Liceo Carducci di Milano avevamo insegnanti straordinari. Al ginnasio ci insegnava latino e italiano la professoressa Maria Attardo Magrini, figlia del grande inviato del Corriere Luciano Magrini. Ho saputo che ha da poco compiuto 105 anni. Al liceo avevo come insegnante di storia e filosofia Renato Fabietti, di italiano e latino Salvatore Guglielmino. Non è però il caso di piangere sul latte passato. Mi è capitato, nell’anno del Covid, di essere invitato, a distanza, dal progetto Gutenberg, a discutere con gli studenti dei licei di Catanzaro. Ebbene: sono più preparati e bravi di quel che eravamo negli anni 60 a Milano. Leggono, studiano e pensano con la propria testa. Scommetto che in televisione hanno guardato l’Eurovision Song Contest e votato per i Kalush. Le rivoluzioni, quelle vere, che riguardano un’intera epoca e un’intera generazione, si fanno anche al suon di musica, come ci ha insegnato il genio del teatro del Novecento, Tom Stoppard, nel suo Rock ’n’ Roll, sul perché l’impero sovietico cominciò a crollare a Praga.
Negli anni del Boom si leggeva la “Trilogia della Fondazione”: “La violenza è l’estremo rifugio degli incompetenti”, scrive Isaac Asimov
Noi, i ragazzi nati nel Dopoguerra e cresciuti negli anni del miracolo economico, ballavamo al ritmo di “Una lacrima sul viso” o di “Ventiquattromila baci”. Divoravamo la Trilogia della Fondazione di un ebreo russo emigrato in America e diventato forse il più grande, certamente il più letto, autore di fantascienza di tutti i tempi: Isaac Asimov. E’ in quella saga iniziata negli anni 40 e completata negli anni della Guerra fredda che mi ero fatto la prima fantasiosa infarinatura di diplomazia, protocolli, negoziati, scambi di note e rapporti degli inviati dell’impero e i 24 mila mondi – alcuni estremamente turbolenti – diffusi nella galassia. “La violenza è l’estremo rifugio degli incompetenti”, dice, sin quasi all’inizio, uno dei protagonisti “politici”, il sindaco di Terminus, Salvor Hardin.
La diplomazia è l’arte di servire il proprio paese convincendo gli altri. E’ l’arte di mediare e comporre le controversie con gli altri, e tra gli altri. E’ l’arte di persuadere il proprio interlocutore. Ma al tempo stesso anche di persuadere i propri mandanti. “Persuasori” venivano chiamati gli ambasciatori e consiglieri itineranti che due millenni e mezzo fa, all’epoca degli stati combattenti, facevano la spola tra i principati in perenne guerra tra di loro tra cui era divisa la Cina antica. C’è chi addirittura ha definito la diplomazia come una “variabile indipendente” nei rapporti internazionali, le attribuisce un potere che va oltre i rapporti di forza economici e militari. E’ un’evidente esagerazione. Non esistono variabili indipendenti. Anzi, tutto nella storia e nella politica è interdipendente. Non esiste diplomazia campata in aria. Un ambasciatore, un diplomatico, un mediatore internazionale non può mai rappresentare solo sé stesso. Esiste, ha senso, è in grado di combinare qualcosa se rappresenta qualcuno.
Kissinger avverte: “Quando uno ha due nemici non è saggio trattarli alla stessa maniera. Bisogna trovare un modo perché emergano le differenze”
Henry Kissinger, il più famoso diplomatico vivente, lavorava nell’interesse degli Stati Uniti, e, nella fattispecie, di un presidente conservatore, nei cui confronti il giudizio dei suoi contemporanei non è stato generoso: Richard Nixon. Quasi centenario (era nato il 27 maggio 1923 a Fürth, nella Germania di Weimar), Kissinger è stato intervistato da Edward Luce per il Financial Times. Ancora lucido da far paura, ha così spiegato il suo capolavoro diplomatico, la ripresa all’inizio degli anni 70 del dialogo con la Cina di Mao: “Quando uno ha due nemici [allora la Cina e l’Urss] non è saggio trattarli esattamente alla stessa maniera. Bisognerebbe per lo meno offrire un’opportunità perché emergano le differenze che ci possono essere tra di loro, o far emergere i diversi atteggiamenti che la situazione internazionale può produrre. Almeno questo…”. Messaggio chiarissimo perché Biden intenda, e con lui tutti quelli che riducono la sfida attuale a uno scontro democrazia contro autocrazie, e rischiano così di favorire la nascita di una “internazionale dei despoti”, o cosa ancora più pericolosa, una sorta di “internazionale dei despoti in difficoltà”.
Kissinger ai suoi tempi è stato durissimo, spietato verso quelli che considerava “nemici” della sua America. Ma continua a ritenere che non c’è alcun vantaggio a mantenere posizioni antagonistiche [adversarial] per ragioni ideologiche. Il riferimento, ça va sans dire, è alla necessità di non antagonizzare la Cina. Lo capirebbe a meraviglia il vecchio Stalin, il quale, pur di non restare isolato, e non avere tutti quanti contro, aveva fatto un orrendo patto con il peggiore di tutti, Hitler. Salvo fare una capriola e diventare amico di Churchill e Roosevelt dopo aver subìto l’attacco nazista.
Stalin aveva negli anni 30 un grande ministro degli Esteri, Maksim Litvinov. Con l’ambasciatore Ivan Maisky cuciva rapporti a Londra
Stalin aveva negli anni 30 un grande ministro degli Esteri. Maksim Maksimovich Litvinov aveva cucito i rapporti con Washington e Londra. Grazie anche all’aiuto di un altro straordinario diplomatico, il suo ambasciatore a Londra Ivan Mikhailovich Maisky. Litvinov si era adoperato per normalizzare i rapporti diplomatici tra Mosca e Washington (gli Stati Uniti di Roosevelt riconobbero l’Unione sovietica solo nel novembre 1933, con Hitler che era cancelliere già da un anno). Era riuscito a firmare nel 1932 un trattato di non aggressione con la Francia, a far accogliere nel 1934 la Russia sovietica nella Società delle Nazioni. Stalin nel 1939 lo aveva bruscamente licenziato, e sostituito con Vjaceslav Michajlovich Molotov, per poter fare il patto con Hitler. Litvinov era ebreo, Maisky figlio di un ebreo e di una russa. Erano meno graditi ai suoi nuovi amici a Berlino. Litvinov poi fu tirato fuori dalla naftalina e nominato ambasciatore a Washington dal 1941 al 1943, consolidando alleanza militare, e amicizia personale con Roosevelt.
Non era l’uomo giusto per il successivo raffreddarsi dei rapporti e l’inizio della Guerra fredda. Fu fatto tornare a Mosca, degradato a vice ministro, e infine nuovamente licenziato. Parlava troppo con la stampa americana. Edgar Snow, che dalla Cina era stato trasferito a fare negli anni di guerra il corrispondente a Mosca, racconta dei messaggi personali che Litvinov gli affidava perché li riferisse a Roosevelt. Litvinov morì per le ferite riportate in un incidente mentre l’auto su cui si stava recando alla sua dacia alla vigilia del capodanno 1951 affrontava una curva. Stando alle memorie di un altro grande diplomatico e uomo di stato sovietico, Anastas Mikojan, era stato spinto deliberatamente fuori strada da un camion spuntato all’improvviso. Era il metodo con cui molti anni dopo avrebbero cercato di liberarsi di Enrico Berlinguer.
L’indipendenza di pensiero dei grandi. “Gromyko non fu un burattino di Breznev”, ricordava Pajetta. Un servo non è mai un buon diplomatico
Maisky era rimasto a Londra. C’è, tra gli storici, chi sostiene che con le amicizie che continuò a coltivare alla corte di San Giacomo e nel governo britannico, Churchill compreso, rese al suo paese servigi, anche sul piano dell’acquisizione di informazioni, incomparabilmente superiori a quelli forniti dalle spie (Kim Philby e gli altri Cambridge Five) che Mosca era riuscita ad infiltrare al vertice del MI6. Con il suo savoir faire era riuscito a superare anche l’ostilità che agli occhi del pubblico britannico aveva suscitato la guerra che nell’inverno 1939-40 la Russia di Stalin aveva scatenato (e perso) contro la piccola Finlandia. Maisky era stato richiamato a Mosca nel 1943. Aveva partecipato ai summit di Yalta e Potsdam. Poi era stato “pensionato” all’Accademia della scienze. E infine licenziato nel 1953, arrestato e torturato come esponente della fantasmagorica “congiura dei medici ebrei”. Sotto tortura aveva confessato di essere stato sin dalla tenera età spia dei giapponesi, e poi di Churchill a Londra. L’aveva salvato dalla fucilazione solo l’improvvisa morte di Stalin. Quando il generale dei servizi incaricato da Beria di smontare la fasulla congiura dei medici ebrei era andato a raccogliere la sua testimonianza, aveva ostinatamente insistito sulla assurda confessione, temendo si trattasse di un ennesimo trucco per incastrarlo. Aveva accettato di ritrattare solo quando gli avevano mostrato un film dei funerali di Stalin. La sua però non era solo paranoia. Fatto fuori Beria, con Molotov di nuovo agli Esteri, era stato riarrestato. Questa volta si rifiutò di confessare alcunché. Nel 1955 Maisky fu condannato a sei anni, poi liberato da Kruscev, alla vigilia di un incontro a Ginevra del nuovo leader sovietico col ministro degli Esteri britannico Anthony Eden, e, infine, completamente riabilitato nel 1960.
L’uomo che aveva lavorato tanto per mantenere buoni rapporti tra Mosca e Londra – sfidando persino Stalin – non era però né anticomunista né antisovietico. Forse semplicemente per convinzione: perché era prima di tutto un patriota russo. O forse perché ci sono traumi che segnano per la vita. Dopo che a Kruscev, Maisky era rimasto fedele a Brežnev. Si dice che sia rimasto malissimo quando nel 1968 gli riferirono che il nipote del suo mentore e amico Litvinov, Pavel, era stato arrestato perché assieme ad altri studenti manifestava a Mosca contro l’invasione della Cecoslovacchia. Pare che Maisky fosse talmente scioccato che ruppe ogni rapporto con i Litvinov.
Malgrado le tante goffaggini, e l’apparente rozzezza contadina, Nikita Sergeevich Kruscev si era rivelato un grande diplomatico
Malgrado le tante goffaggini, e l’apparente rozzezza contadina, Nikita Sergeevich Kruscev si era rivelato un grande diplomatico. Aveva resuscitato un vecchio concetto staliniano, quello di “coesistenza pacifica” tra sistemi politici diversi e antagonistici, tra capitalismo e socialismo. Gli aveva dato nuova carne e nuovo sangue e soprattutto lo aveva reso credibile e convincente. Veniva accantonata, in favore dell’idea di competizione pacifica tra i due sistemi, l’idea della “guerra di classe”. Anzi, l’idea della guerra tout court, diventata obsoleta e impossibile nel momento in cui rischiava di essere una guerra nucleare. “Può piacervi il vostro vicino. O dispiacervi. Non siete obbligati ad essergli amici o a fargli visita. Ma vivete uno accanto all’altro, e cosa potete fare se né voi né lui hanno voglia di andarsene a vivere altrove? […]. E allora, cosa fare? Ci sono solo due maniere di uscirne: la guerra – e la guerra nell’èra della bomba H avrebbe le conseguenze più tragiche per tutti – oppure la coesistenza pacifica. Che vi piaccia il vostro vicino, o meno, non ci si può fare nulla, se non trovare un modo per andare d’accordo, perché sia lui che voi vivete sullo stesso pianeta, che è uno solo…”. Così la metteva, non senza efficacia, Kruscev in un articolo dell’ottobre 1959 per Foreign Affairs. Gli aveva risposto sulle stesse pagine, mettendo i puntini sugli i circa il dire e il fare della politica estera di Mosca, ma dandogli sostanzialmente corda, il padre nobile della diplomazia americana del Dopoguerra, George Kennan, colui che aveva teorizzato il containment dell’Unione sovietica di Stalin, senza che si arrivasse però mai alla guerra diretta con Stalin.
La “mission impossible” di Anastas Mikojan, disinnescare la crisi dei missili a Cuba. La parte più difficile era stata convincere Fidel Castro
Era cambiato radicalmente il paradigma. Stalin negli anni 30 aveva ispirato tutta la sua politica all’idea dell’inevitabilità della guerra mondiale. La sua Urss doveva prepararsi a una guerra inevitabile come la morte. Poteva ritardarla, cambiare alleanze per evitare di essere stritolata, mobilitare la solidarietà internazionale del movimento comunista, ma non poteva lasciarsi cogliere impreparata, senza industria pesante. Con Kruscev la novità è che guerra si può anzi si deve evitare a ogni costo. Perché una guerra atomica non avrebbe più vincitori. Ci sarebbero arrivati, più di una volta, sull’orlo del precipizio. Senza però mai superarlo.
A disinnescare nel 1962 la crisi dei missili a Cuba fu Anastas Ivanovich Mikojan, vecchio bolscevico armeno autodidatta, incaricato da Kruscev di fare la spola tra Mosca, l’Avana di Fidel Castro e la Casa Bianca di John Fitzgerald Kennedy. La parte più difficile era stata convincere Fidel Castro. Il Líder Máximo della rivoluzione cubana considerava il ritiro dei missili un cedimento inaccettabile alla prepotenza imperialista yanqui. Non si fidava di Washington. La Cia aveva già tentato più volte di invadere Cuba e ucciderlo. Quella di Mikojan sembrava una mission impossible, un po’ come convincere Zelensky a fidarsi di Putin. C’era invece riuscito. Con ostinazione e pazienza, passando notti intere a discutere con Fidel, rinunciando persino a tornare a Mosca per assistere ai funerali di sua moglie, facendo tappa a Washington per incontrare Kennedy e coinvolgerlo nelle rassicurazioni.
Non era il suo primo viaggio in America. C’era già stato nel 1958, con un’iniziativa senza precedenti. Si era fatto invitare privatamente dal collega ambasciatore a Washington, spiazzando la Casa Bianca di Eisenhower e Nixon. Aveva girato gli Stati Uniti coast to coast, visitando semplici diner (le mense in un vagone) di provincia e grandi magazzini leggendari come il Macy’s di New York, parlando in sedi prestigiose come il Council of Foreign Relations e il Detroit Club, incontrando Henry Ford e celebrità di Hollywood. Era un’iniziativa per rimediare a un passo falso di Kruscev, il blocco di Berlino, a cui lui, che era praticamente il numero due a Mosca, si era opposto, così come si era opposto alla sciagurata idea di installare missili a Cuba. Anzi, si racconta che quando Kruscev gli chiese di rimediare, gli avesse risposto: “L’hai combinata tu, vacci tu”. Salvo ripensarci e assolvere poi egregiamente la missione.
Mikojan era stato il primo a dare agli americani un’immagine non minacciosa. Ed era tornato a Mosca dando ai sovietici un’immagine diversa, meno minacciosa, dell’America. Il deprecato imperialismo Usa era anche benessere materiale, soprattutto per le classi lavoratrici, elettrodomestici, cucine, hamburger, gelato, popcorn, succhi di frutta. Non era nuovo a exploit, come dire, culinari. Nel 1939 aveva pubblicato, da commissario del popolo per l’industria alimentare di Stalin, un volumone di ricette culinarie intitolato Libro sul cibo buono e salutare che, diffuso e continuamente ristampato in milioni di copie, avrebbe accompagnato per decenni l’acquolina, le speranze, i sogni, i desideri di generazioni di sovietici.
Eduard Shevardnadze, il ministro degli Esteri che Michail Sergeevich Gorbaciov scelse nel 1985 per far uscire l’Unione sovietica dalla stagnazione degli anni di Breznev, e far uscire il mondo dalla Guerra fredda, non veniva nemmeno dalla carriera diplomatica, anzi era totalmente digiuno di sottigliezze della diplomazia. Eppure inaugurò una stagione straordinaria di negoziati per il disarmo, trattando e collaborando con i segretari di stato di Ronald Reagan, George Shultz, e del suo successore George Bush, James Baker. Come nel tango, in diplomazia bisogna essere in due a ballare. Shultz e Baker, a differenza dei loro predecessori, ho avuto la fortuna di conoscerli e incontrarli anche di persona, dopo che da corrispondente dalla Cina mi ero trasferito a fare il corrispondente dall’America. Erano gli ultimi anni 80. Ero stato con Reagan a Mosca, e poi ai summit di Bush padre con Gorbaciov, prima a San Francisco, poi a Malta.
Non era facile per il ministro degli Esteri Lavrov vestire i panni di tali e tanti antenati. Ma non era neppure scontato che facesse tanto male
A Malta, su una nave da guerra nel mare in tempesta, in una grigissima giornata del dicembre 1989, non molte settimane dopo la caduta del Muro di Berlino, Gorbaciov aveva rilanciato un’utopia che aveva segnato l’inizio della sua leadership, quella di una “Comune casa europea” di cui facesse parte anche la Russia. “Tutta l’Europa si sta muovendo, e si sta muovendo in una direzione inedita. Anche noi ci consideriamo europei, e associamo a questo movimento l’idea di una comune Casa europea”. Non se ne fece nulla. Nell’agosto 1991 Gorbaciov fu rimosso da un golpe dell’ala dura del Pcus. Shevardnadze se n’era andato prima ancora, in polemica con il montare delle pressioni per il ricorso alla forza contro i Paesi baltici in ebollizione.
Un tratto comune alla personalità di tutti i grandi protagonisti della diplomazia russa è una certa indipendenza di pensiero rispetto ai loro principali. Litvinov e Maisky non erano servi di Stalin. Così come né Trockij, il primo commissario agli esteri sovietico, né il suo successore Cicerin erano stati servi di Lenin. Nemmeno Andrej Andreevich Gromyko, che aveva guidato la politica estera per quasi trent’anni, fu semplicemente un servo di Brežnev. “Lo chiamavano il Signor Niet, ma non era un burattino”, il commento, al momento della sua scomparsa, di Gian Carlo Pajetta, che lo aveva conosciuto bene. Un servo non è mai un buon diplomatico. Non credo si possa sostenere che Kissinger sia stato servo di Nixon. George Shultz era in profondo dissenso con altri componenti del governo Reagan. Lo condusse a vincere la Guerra fredda trattando con Mosca, anziché facendo la guerra a Mosca, come avrebbero voluto altri. Se Bush junior avesse seguito i consigli di Jim Baker, come faceva suo padre, forse non avrebbe impantanato l’America e il mondo in Afghanistan e Iraq.
Talleyrand non era semplicemente un servo di Napoleone, così come non era un servo dello zar Alessandro II il suo ministro degli Esteri Aleksandr Michajlovich Gorcakov. Sua l’impresa quasi impossibile di ridare prestigio in Europa alla Russia dopo la disastrosa sconfitta nella guerra di Crimea. “La Russie ne boude pas. La Russie se recueil”, la Russia non tiene il broncio, si ricompone, la sua leggendaria istruzione agli ambasciatori russi.
Non era facile per l’attuale ministro degli Esteri russo, Sergej Viktorovich Lavrov, mettere i piedi nelle scarpe di tali e tanti antenati. Ma non era neppure scontato che facesse tanto male, riuscisse nel giro di poche settimane a dissipare tutto il prestigio accumulato nel corso di un secolo dalla diplomazia del suo paese. In men che non si dica è diventato, agli occhi di mezzo mondo, un maldestro sicofante. Si è fatto fama di bugiardo, di sbruffone, di gaffeur.
Diceva, ancora a febbraio, che il dispiegamento ai confini con l’Ucraina erano semplici esercitazioni, che non c’era alcun piano di invasione. Poi lo si era visto e sentito nella riunione del Consiglio di sicurezza in cui Putin chiedeva il parere dei suoi sottoposti, interrogandoli come scolaretti. Era sembrato distinguersi dagli altri. Era stato l’unico a obiettare, molto timidamente, che forse si sarebbe potuto aspettare ancora un po’, dare ancora qualche chance alle diplomazia. Ci stava: si poteva ancora pensare che facesse il gioco della parti, dello sbirro buono contro lo sbirro cattivo. Poi, in rapidissima dissolvenza, lo si è sentito negare l’evidenza, persino che ci fosse una guerra in corso (“operazione militare speciale”, dicevano). L’unica guerra sarebbe quella ibrida che l’occidente avrebbe dichiarato alla Russia. Di fronte alla immagini delle atrocità, a Bucha e altrove, ha continuato a ripetere che sarebbero state “messe in scena”. Lo abbiamo sentito ripetere la favola della “denazificazione”, accusare l’intero occidente di combutta con Biden e quei “nazisti” di Kyiv. Lo si è sentito cercare di intimidire l’Europa e la Nato, vicini e lontani, con la minaccia di “conseguenze”, di una terza guerra mondiale, e persino di ricorso alle armi nucleari. Infine, lo si è sentito dire, in un intervista in diretta a un canale di Mediaset, che il fatto che Zelensky sia ebreo non osta che possa essere a capo di una banda di nazisti, anzi che sarebbe frequente. Persino il suo capo Putin ha dovuto chieder scusa per la bestialità. Il che lascia il mondo intero nel dubbio se Lavrov ci sia o ci faccia. E nella certezza che la diplomazia non è il suo mestiere.
Ma cosa poteva fare? si dirà. Poteva dimettersi, o almeno minacciare di dimettersi. Battere almeno un colpo. Come ha fatto la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Sakhipzadovna Nabiullina. Come aveva fatto il suo predecessore, Igor’ Sergeevich Ivanov, dimessosi nel 2004 per far posto proprio a Lavrov. Come aveva fatto, prima ancora, il ministro degli Esteri di Eltsin, Andreij Kozyrev. Entrambi dissociatisi, in modi diversi (per forza, uno sta all’estero, l’altro a Mosca), dalla guerra di Putin in Ucraina.
Dalle piazze ai palazzi