la sparatoria a uvalde

La strage in Texas certifica il fallimento sociale americano

Stefano Pistolini

Ancora una sparatoria negli Stati Uniti: morti 19 bambini e due adulti, ucciso l'assassino 18enne. Gli attacchi nelle scuole e le relative vittime si contano a centinaia nel decennale della strage di Sandy Hook

Dal momento che non c’è alcun benefico sviluppo, nessuna conseguenza riparatrice alla ripetizione del mostruoso errore umano rappresentato dalla cadenza delle stragi in America, provocate da attacchi di singoli massacratori con motivazioni incomprensibili (come se potessero esistere ragioni, all’origine di questi gesti). E dal momento che sfiora il tragicamente ridicolo la ripetizioni dei rituali, che partono da un angolo sperduto d’America (stavolta Uvalde, Texas meridionale, 16mila abitanti, a due passi dal confine col Messico), andando in scena in una scuola, un supermercato o un ufficio, per esplodere poi nella spettacolarizzazione mediatica, perché la strage è uno scenario che regge bene gli ascolti e se ci sono di mezzo i bambini la nazione prende a frignare collettivamente nei talk show per due o tre giorni buoni, inscenando quindi l’abituale passaggio da Washington, Casa Bianca in testa, il presidente (“Non avrei mai voluto ripetere questo parole. Bisogna fermare la lobby delle armi”) e poi i professionisti della politica che da un quarto di secolo vedono infrangere gli effimeri tentativi di rendere meno accessibile il possesso di armi contro quel Secondo Emendamento e la volontà maggioritaria di considerare la difesa personale e le mefistofeliche distorsioni che ne discendono come un diritto inalienabile. Dunque, come a Broadway, tutte le sere è tutto uguale, nel più lampante caso di impotenza collettiva che certifichi il fallimento sociale americano meglio di tante altre spie ormai accese da tempo: gli attacchi nelle scuole e le relative vittime si contano a centinaia e corre quest’anno il decennale della strage di Sandy Hook, Connecticut, con 26 morti e Obama che dichiara al Congresso che la misura è colma e tutto ciò va fermato.

Non è successo allora e non succederà ora, con milioni di fucili automatici in circolazione nel paese e un rapporto culturale degli americani con le armi da fuoco che può solo essere osservato con costernazione, per comprendere dove possa spingersi la follia collettiva, diventando una banale normalità i cui prodotti si contano in cadaveri di bambini ammazzati. La prova del disastro – la faccia chiunque ne parla, perché è definitiva – è una passeggiata in un gun show, le fiere itineranti che si svolgono in tutti gli Stati Uniti nei weekend, dove viene venduta, con sconti di cui è impossibile non approfittare, la gran parte delle armi che finiranno nei garage, nei salotti e nelle automobili degli americani. L’atmosfera è festosa, i prezzi vantaggiosissimi, il think big è la regola, le pacche sulle spalle si sprecano confrontando le dimensioni dei propri caricatori. Sembra impossibile non tornare a casa da questa festa senza portarsi a casa un mitragliatore con cui sradicare in due minuti una comunità antipatica – ma così, per scherzo, le armi si sa sono solo un antidoto alla violenza, perché prevenire scoraggia. È l’enorme, stupida illusione di un popolo così ipnotizzato da continuare a giocare col fuoco, perché con questa regola è cresciuto e non sa e non vuole andare oltre, perché le armi rendono forte chiunque le possegga e sono vissute come un meccanismo di sicurezza e non come una minaccia collettiva.

È dunque culturale la canalizzazione della confusione psicologica e delle frustrazioni che l’hanno provocata, verso oggettini che sparano 100 proiettili al minuto, acquistati per il proprio compleanno, come nel caso del tenebroso ragazzino Salvador Ramos, solo 18 anni, buona parte dei quali trascorsi nella Robb Elementary School dov’è tornato allorché ha deciso di dare forma tangibile al proprio scontento e un aspetto memorabile al suo passaggio terreno. Eppure, consumato il lutto, messa in scena la baruffa attorno al significato di libertà in America e alle attinenze con un AK-47, comincerà il conto alla rovescia per la prossima strage, in un altro angolo anonimo della nazione, dove qualcuno si sveglierà con la balbettante tentazione di offrire agli altri un segnale di sé. Essendo spietati, verrebbe da dire che solo il giorno in cui questo qualcuno fosse il dorato figlio di un politico di fama nazionale, intenzionato a portare con sé all’altro mondo qualche dozzina di minorenni delle migliori famiglie americane, magari quel giorno i maggiorenti di questa Camelot allucinata provvederebbero a mettere un freno alla follia. Provvedimento trascurabile, perché le armi ormai sono là fuori, anzi in Texas si portano in pubblico senza motivo, come ne “I magnifici Sette”. E sulle stragi si girano con puntualità dei film, spesso anche commoventi. Perché è l’inesorabile sviluppo culturale di questa realtà a risiedere nel cuore psicologico d’America, a rendere ineluttabile questo stato di cose. E idiota e fosco il futuro che ne discende. 

 

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