Jacinda Ardern dice che la democrazia è fragile: per rafforzarla serve un nuovo spirito di convivenza
Dal controllo delle armi alla disinformazione. È la forza gentile che ci salva. E ci serve un passo fuori dalla nostra tribù, con gentilezza. Il discorso che il primo ministro della Nuova Zelanda ha tenuto ai laureandi dell’Università di Harvard il 26 maggio
Te oku manukura, nga pou haemata o te ngahere. e Piko o Te Mahuri, tera te tipu o te rakau. E tipu, e rea, ka puta, ka ora. Tena koutou katoa.
In Te Reo Maori, la lingua degli indigeni della Nuova Zelanda, ho reso omaggio a tutti gli ospiti che si trovano qui, in questa grande foresta del sapere. E’ un privilegio per me essere qui e vi ringrazio. Ci sono momenti nella vita che fanno sentire il mondo piccolo e connesso. Questo non è uno di quelli. Quando entro in una stanza in Nuova Zelanda sono abituata a conoscere almeno qualcuno – è uno degli aspetti più belli e confortanti del vivere in un paese piccolo. E anche se questo momento mi sembra incredibilmente scoraggiante, mi consola sapere che ci sono circa trenta neozelandesi che studiano qui, e statisticamente almeno uno di loro sarà mio cugino.
Ma poi ci sono alcuni momenti che servono a ricordarti che, nonostante la distanza, nonostante storie ed esperienze molto diverse, ci sono molte cose che ci uniscono. Nel giugno del 1989 l’allora primo ministro del Pakistan si trovava proprio qui in questa stessa occasione e pronunciò un discorso intitolato: “Le nazioni democratiche devono unirsi”. Parlò della sua esperienza, dell’importanza della cittadinanza, del governo rappresentativo, dei diritti umani e della democrazia. Ho incontrato Benazir Bhutto a Ginevra nel giugno del 2007. Entrambe partecipavamo a una conferenza che riuniva i partiti progressisti di tutto il mondo. Solo sette mesi dopo fu assassinata.
Su tutti noi leader politici si scrivono e scriveranno opinioni differenti, ma ci sono due cose che la storia non contesterà a Benazir Bhutto. E’ stata la prima premier donna musulmana eletta in un paese islamico, quando una donna al potere era una cosa rara. E’ stata anche la prima a mettere al mondo un figlio mentre era in carica. Il secondo e unico altro leader ad aver fatto un figlio quando era in carica, quasi trent’anni dopo, sono io. Mia figlia, Neve Te Aroha Ardern Gayford, è nata il 21 giugno 2018: il compleanno di Benazir Bhutto. Il percorso che ha tracciato come donna è attuale oggi come lo era decenni fa, e lo è anche il messaggio che condivise qui. Nel 1989, al termine del suo discorso, disse: “Dobbiamo renderci conto che la democrazia può essere fragile”.
Ho letto queste parole mentre ero seduta nel mio ufficio a Wellington, in Nuova Zelanda – un mondo lontano dal Pakistan. E anche se le ragioni che hanno dato origine alle sue parole allora erano molto diverse, oggi sono ancora valide.
La democrazia può essere fragile. Questo modo imperfetto ma prezioso in cui ci organizziamo, che è stato creato per dare uguale voce ai deboli e ai forti, che è stato progettato per contribuire a creare consenso, è fragile. Per anni abbiamo dato per scontato che la fragilità della democrazia fosse determinata dalla sua durata. Che in qualche modo la forza della democrazia fosse come un matrimonio: più a lungo si è stati insieme, più è probabile che il matrimonio si conservi. Ma questo dà troppe cose per scontate.
Ignora il fatto che le fondamenta di una democrazia forte includono la fiducia nelle istituzioni, negli esperti e nello stato – e che questa può essere sì costruita per decenni, ma può essere distrutta in pochi anni. Ignora anche il fatto che una democrazia forte si basa sul dibattito e sul dialogo. Ignora ciò che accade quando, a prescindere da quanto a lungo la democrazia sia stata testata, quando i fatti vengono trasformati in finzione e la finzione in fatti – si smette di discutere di idee e si inizia a discutere di complottismi. Ignora insomma la nostra realtà di ogni giorno.
Nel mio paese vige una democrazia parlamentare rappresentativa. Senza star qui a farvi una litania di fatti divertenti sulla Nuova Zelanda che difficilmente vi serviranno di nuovo, vi fornisco la versione breve. Abbiamo un sistema proporzionale a membri misti, il che significa essenzialmente che ogni voto conta, e che il nostro Parlamento rifletta al meglio le nostre comunità. Per quasi il 50 per cento è composto da donne, il 20 da Maori, la popolazione indigena della Nuova Zelanda, e il nostro vicepremier è omosessuale e siede tra molti altri parlamentari arcobaleno. Negli ultimi dieci anni abbiamo approvato leggi che vanno dall’introduzione del matrimonio gay alla messa al bando della terapia di conversione, fino all’inserimento nella legislazione dell’obiettivo di 1,5 gradi di cambiamento del clima, alla messa al bando delle armi semiautomatiche e dei fucili d’assalto di tipo militare e alla depenalizzazione dell’aborto. Si tratta di questioni importanti, su cui abbiamo discusso moltissimo. Ma mostrano come abbiamo attraversato tempi di profondi cambiamenti senza lasciare, per lo più, spaccature profonde.
Abbiamo visto accadere anche il contrario. Ammetto di avere qualche timore a partecipare a una discussione su come rafforzare le nostre democrazie quando questo tema viene erroneamente distorto e messo in contrapposizione alla libertà di parola. Ma ho un timore ancora più grande: riguarda ciò che accadrà alle nostre democrazie se non agiamo per rafforzarne le fondamenta. Se non ritroviamo la capacità di argomentare le nostre posizioni, sì con la passione che la convinzione porta con sé, ma senza l’odio e la violenza. Se non troviamo un modo per garantire che la differenza – lo spazio in cui le prospettive, le esperienze e il dibattito danno origine alla comprensione e al compromesso – non diventi invece divisione, il luogo del trinceramento, dove il dialogo si allontana, le soluzioni si frantumano e la spaccatura tra di noi diventa così profonda che nessuno osa più passare dall’altra parte. Siamo su un baratro e, piuttosto che chiederci cosa lo abbia causato, oggi voglio parlare di come affrontarlo.
Non sono un’accademica, sono una politica di Morrinsville – è proprio vicino a Hobbiton, non sto scherzando. Ma in quella piccola città rurale di cinquemila abitanti, dove ho trascorso la maggior parte dei miei anni formativi e che amerò per sempre per ciò che mi ha dato, ho vissuto nello spazio importante che si trova tra la diversità e la divisione. Sono cresciuta come mormona in una città in cui le religioni dominanti erano quella cattolica, quella anglicana e il rugby. Ero una donna interessata alla politica, alla politica di sinistra, in una regione che in tutta la sua storia democratica non aveva mai eletto nessuno che non fosse un candidato conservatore. Queste differenze facevano parte della mia identità, ma non sono mai state fonte di isolamento.
Ma sono vecchia, e indubbiamente le cose sono cambiate. In effetti, la mia è la generazione che si è trovata sulla cuspide dell’èra di internet. Ricordo la prima persona della mia scuola che ha avuto accesso alla rete. Si chiamava Fiona Lindsay e suo padre era il commercialista del paese. Alla sera, prendevamo la chiave e ci collegavamo ai suoi enormi computer, con schermi così grandi che le scrivanie erano a più livelli per poterli inserire. Erano gli anni Novanta. L’interfaccia e persino l’uso che si faceva di internet a quei tempi erano diversi. Ci si collegava e si parlava con qualcuno. Con chiunque. Era la spontaneità della connessione che per certi versi rispecchiava la vita reale. Ma quando le opportunità di connessione si sono ampliate, gli esseri umani hanno fatto quello che hanno sempre fatto: ci siamo organizzati. Sono nate le piattaforme social che offrono la promessa di connessione e riconnessione. Ci siamo collegati a miliardi, formando tribù e sottotribù, abbiamo pubblicato liberamente i nostri pensieri, sentimenti e idee. Abbiamo trovato un posto dove condividere informazioni, fatti, finzioni travestite da fatti, meme e più video di gatti di quanti avreste mai pensato possibili.
Abbiamo trovato un luogo dove sperimentare nuovi modi di pensare e celebrare le nostre differenze. Ma sempre più spesso non lo usiamo per fare nessuna delle due cose. Dubito che qualcuno abbia mai creato un gruppo intitolato “opinioni politiche con cui non sono d’accordo, ma con cui scelgo di entrare in un dialogo rispettoso per capire meglio le prospettive alternative”. Come esseri umani, siamo naturalmente predisposti a rafforzare le nostre opinioni, a riunirci con persone simili a noi e a evitare il temuto senso di dissonanza cognitiva. Cerchiamo convalide, conferme, rinforzi. E sempre più spesso, con l’aiuto degli algoritmi, ciò che cerchiamo ci viene servito, a volte prima ancora di sapere che lo stiamo cercando. Non sono qui per sostenere che i social media siano buoni o cattivi. Sono uno strumento. E come per ogni cosa, l’importante sono le regole del gioco. Ma i social media contano molto. E forse molto più di quanto pensiamo.
Il 15 marzo del 2019, 51 persone sono state uccise in un attacco terroristico contro due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda. L’intero atto brutale è stato trasmesso in live streaming sui social. La commissione d’inchiesta ha scoperto che il terrorista responsabile dell’attacco si era radicalizzato online. All’indomani dell’esperienza neozelandese, abbiamo sentito un senso di responsabilità. Sapevamo di aver bisogno di una riforma significativa delle armi, e così abbiamo fatto. Ma sapevamo anche che, se volevamo soluzioni autentiche al problema dell’estremismo violento online, era necessario che il governo, la società civile e le stesse aziende tecnologiche cambiassero il panorama. Il risultato è stato l’Appello all’azione di Christchurch.
E se molte cose sono cambiate, altre non sono cambiate. E’ giunto il momento che le aziende dei social media e gli altri fornitori online riconoscano il loro potere e agiscano di conseguenza. Ciò significa rispettare i loro termini di servizio. Ciò significa riconoscere il ruolo che svolgono nel curare e plasmare costantemente gli ambienti online in cui ci troviamo. Che i processi algoritmici fanno scelte e decisioni per noi – cosa vediamo e dove siamo indirizzati – e che nel migliore dei casi questo significa che l’esperienza dell’utente è personalizzata e nel peggiore che può essere radicalizzata. Ciò significa che c’è un bisogno urgente e pressante di uno sviluppo e di una diffusione responsabili degli algoritmi.
Ma le aziende tecnologiche sono solo una parte della risposta. Anche ciò che facciamo come individui in questi spazi è importante. La nostra volontà di riconoscere le nostre idee preconcette. Il livello di critica che applichiamo a ciò con cui ci confrontiamo. C’è un termine che viene spesso usato: “Leone da tastiera”. Viene usato per indicare qualcuno che scrive online messaggi aggressivi o offensivi, spesso in forma anonima. Mi piace questo nome. Nella mia mente, quando leggo qualcosa di particolarmente orribile sul mio feed, immagino che sia stato scritto da una persona sola che non ha dimestichezza con le pratiche di igiene personale, vestita con un costume da supereroe poco aderente – un costume che è largo in tutti i punti sbagliati. Io mi occupo dei miei social media, l’ho sempre fatto, ma sappiamo tutti che oggi non si condividono solo notizie e informazioni.
Recentemente ho avuto il privilegio di partecipare a un panel con l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel. Da tempo ammiro la sua leadership, non da ultimo per la sua resistenza. E’ stata al potere per 16 anni. Una volta le ho chiesto come ci fosse riuscita e la sua risposta è stata: “Le cose sono cambiate molto”. Nel corso dell’incontro, ha riflettuto su alcuni di questi cambiamenti: “Un tempo c’erano certi eventi che accadevano, la televisione li riportava e il giorno dopo tutti ne parlavano”. Oggi, anche questo semplice gesto è cambiato. Quelli che consideriamo media mainstream sono proliferati, ma non le strutture proprietarie. I media mainstream hanno livelli di responsabilità e aspettative giornalistiche che altri, che pure ci presentano informazioni, non hanno. C’è una competizione per gli introiti pubblicitari con servizi di abbonamento e paywall, il tutto per favorire la sopravvivenza del più adatto, che ora è definito da quanto è facile monetizzare i propri contenuti. E in mezzo a tutto questo, c’è il fatto che non stiamo parlando solo di come accediamo alle informazioni e alimentiamo il dibattito, ma se queste si possano chiamare informazioni in assoluto.
Ci sono persone molto più colte di me che sostengono che la piaga della disinformazione sia da ricercare in un’unica fonte. All’interno del vostro stesso campus, c’è chi sostiene che gli attuali problemi di disinformazione non sono il risultato di algoritmi o troll, ma di “strutture mediatiche asimmetriche che si sono formate decenni fa”. Non sono qui per sostenere una tesi o l’altra. Perché, in fondo, quello che stiamo vivendo non è una novità. Thomas Rid sostiene che l’èra moderna della disinformazione è iniziata all’inizio degli anni Venti “durante la Grande Depressione, in un’epoca in cui il giornalismo era stato trasformato dalla radio, e tornava a essere tagliente e veloce”, e che ciò che è seguito da allora è arrivato a ondate, compresa quella della metà del 2010, “con la disinformazione rinata e rimodellata dalle nuove tecnologie e dalla cultura di internet”. Altri sottolineano l’accelerazione del flusso di informazioni e disinformazione che si verifica con ogni nuova tecnologia che consente la duplicazione e la distribuzione di massa, dalle fotocopiatrici alle cassette. L’unica cosa che è cambiata, forse, è la velocità. Ma, come conclude Rid, in ogni caso “la posta in gioco è enorme, perché la disinformazione corrode le fondamenta della democrazia liberale, la nostra capacità di valutare i fatti nel merito e di autocorreggerci di conseguenza”.
Mi rendo conto che l’immagine che sto descrivendo può sembrare opprimente e insormontabile. Ma in fondo sono un’ottimista. E anche se non possiamo cambiare tutto dell’ambiente in cui ci troviamo, possiamo cambiare noi stessi. Per costruire una maggiore forza e resilienza, nonostante i venti contrari che ci circondano. E ne vedo esempi ogni giorno. Leah Bell e Waimarama Anderson erano due giovani studenti di una scuola pubblica neozelandese chiamata Otorohanga College. Non riuscivano a capire perché tutti i giovani neozelandesi non imparassero a scuola la storia della Nuova Zelanda, comprese le guerre neozelandesi, il conflitto tra le truppe britanniche e coloniali e i Maori nel XIX secolo. Questi due studenti hanno spinto per un cambiamento, presentando una petizione al Parlamento. E ci sono riusciti. L’anno prossimo, per la prima volta, i nostri giovani impareranno a conoscere il loro passato, la loro cultura e la loro storia. Ma ciò che è importante non è solo ciò che i nostri giovani imparano, ma anche come. In un’epoca di disinformazione, dobbiamo imparare ad analizzare e criticare le informazioni. Questo non significa insegnare la “diffidenza”, ma piuttosto, come esaltava il mio vecchio insegnante di Storia, il signor Fountain: “Capire i limiti di una singola informazione e che esiste sempre una serie di prospettive su eventi e decisioni”. La nostra storia ci mostra l’importanza di questo aspetto. Ma anche il nostro presente lo dimostra.
Siete e sarete sempre circondati da pregiudizi. Continuerete a essere esposti alla disinformazione. E con il passare del tempo, il “rumore” da cui siete circondati probabilmente non farà che peggiorare. E forse è per questo che, quando fu adottata la vostra Costituzione, a Benjamin Franklin fu chiesto cosa fosse stato creato e rispose: “Una Repubblica, se riuscite a mantenerla”.
Se voi riuscite a mantenerla. Sì, la diversità delle voci nei media tradizionali è importante. La responsabilità dei social media è importante. Insegnare ai nostri figli a gestire la disinformazione e il ruolo che svolgiamo come leader è importante. Ma anche voi siete importanti. Il modo in cui scegliete di affrontare il conflitto o il dibattito, di affrontare l’esca o l’odio: tutto conta. Nelle sfide che abbiamo davanti, nei nostri sforzi costanti, non trascurate l’impatto di semplici passi che sono proprio davanti a voi. L’impatto che ognuno di noi ha come individuo.
Scegliete di trattare le differenze con gentilezza. Quei valori che esistono nello spazio tra la diversità e la divisione. Le stesse cose che insegniamo ai nostri figli, ma che poi consideriamo una debolezza nei nostri leader. I problemi che affrontiamo come società non potranno che intensificarsi. La disinformazione non potrà che aumentare. L’attrazione per il comfort delle nostre tribù sarà amplificata. Ma siamo in grado di garantire che questo non significhi che ci dividiamo. Siamo più ricchi per la nostra differenza e più poveri per la nostra divisione. Attraverso un dibattito e un dialogo autentici, ricostruendo la fiducia nell’informazione e nell’altro, attraverso l’empatia, recuperiamo lo spazio che sta in mezzo. Dopotutto, ci sono delle cose nella vita che fanno sentire il mondo piccolo e connesso: che la gentilezza sia una di queste.
Jacinda Ardern è primo ministro della Nuova Zelanda. Questo è il discorso che ha tenuto ai laureandi dell’Università di Harvard il 26 maggio scorso.