Lo studio di Yale
Le sanzioni alla Russia che funzionano
Guardate la foto. Sono i brand scappati dalla Russia. Un prof. di Yale ha dimostrato che fuggire da una dittatura porta alle aziende un valore aggiunto. Ecco gli altri schiaffi che servono contro Putin
Ci sono sanzioni che tardano ad arrivare, come quelle che riguardano l’embargo europeo del petrolio. E ci sono invece sanzioni che, nel silenzio degli utili idioti del putinismo desiderosi di avvicinarsi alla pace chiedendo alla comunità internazionale di allentare la presa non sull’Ucraina ma sulla Russia, qualche risultato importante, tangibile, concreto, lo stanno già dando. Ci sono sanzioni che tardano ad arrivare, come quelle che riguardano il sesto faticoso pacchetto di norme anti Putin che l’Unione europea tenterà di approvare oggi. E ci sono sanzioni invece che stanno già funzionando in modo micidiale e naturale, quelle messe in campo da tutte le aziende private che hanno scelto volontariamente di chiudere la porta in faccia a Putin. L’elenco di queste aziende, che trovate magnificamente raffigurato nell’immagine all’inizio di questo articolo, viene aggiornato da tre mesi in modo certosino da un formidabile professore dell’università di Yale: Jeffrey Sonnenfeld. Sonnenfeld è convinto che “fortificare la pace nel mondo, proprio come fortificare la democrazia, è una parte del dovere aziendale” e insieme con il suo team di esperti, ricercatori e studenti dello Yale Chief Executive Leadership Institute dà conto in tempo reale ormai da dodici settimane di quali sono (a) le aziende che hanno chiuso le loro attività in Russia, (b) le aziende che hanno temporaneamente sospeso le proprie attività in Russia e (c) le aziende che hanno fatto promesse vaghe su investimenti futuri senza modificare le loro operazioni in Russia.
L’elenco più interessante riguarda le aziende che hanno scelto, senza che avessero un obbligo esplicito, di abbandonare la Russia portando avanti operazioni di dismissione “oltre il minimo indispensabile legalmente richiesto dalle sanzioni internazionali”. E rispetto a questo elenco, il team di Yale, il 25 maggio, ha pubblicato sul sito dell’università uno studio interessante, limitato alle circa 600 società quotate in Borsa che sono fuggite dalla Russia, per smontare una bufala alimentata con frequenza eccessiva, da tempo, dai professionisti della zizzania. La bufala sostiene che la fuga dalla Russia abbia gravemente impattato sui bilanci delle aziende che hanno scelto di mettere la globalizzazione al servizio della difesa e della democrazia. Ma lo studio di Yale dimostra, numeri alla mano, che i mercati finanziari, finora, hanno premiato sistematicamente le aziende che si sono ritirate punendo quelle che sono rimaste. Le conclusioni dello studio sono sorprendenti. E positive. Nonostante l’attenzione sproporzionata prestata alle presunte perdite sostenute dalle aziende che si sono ritirate dalla Russia, “i mercati finanziari stanno chiaramente offrendo guadagni smisurati a queste aziende dall’uscita dalla Russia, in classi di attività, area geografica e periodi di tempo molto variegati”. In particolare, sulle 1.200 società prese in esame il rendimento totale ottenuto dagli azionisti dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina “ha più che compensato il livello di riduzione delle entrate generato dal ritiro delle operazioni in Russia facendo registrare in media un aumento del valore delle azioni tra l’uno e il due per cento”.
Gli studiosi, poi, notano che i mercati finanziari hanno premiato le società che sono uscite dalla Russia non solo a livello di azionariato, che non è poco, ma anche a livello di stabilità finanziaria, essendo stato rilevato un leggero ma statisticamente significativo aumento della probabilità di insolvenza implicita nel mercato per le società rimaste in Russia rispetto a quelle che si sono ritirate. Gli investitori, concludono gli studiosi, credono chiaramente e inequivocabilmente che i rischi associati alla permanenza in Russia, in un momento in cui quasi mille grandi società globali sono uscite, superano di gran lunga i costi dell’uscita dalla Russia. In altre parole, gli investitori hanno scelto non di punire le aziende che hanno infilato nel cestino i propri asset in Russia ma al contrario hanno scelto di premiare le società che hanno eliminato dal loro orizzonte strategico un grave rischio reputazionale, uscendo dalla Russia. E un processo altrettanto interessante, di fuga da Mosca, lo si è registrato anche su un altro fronte ancora meno scontato che riguarda il blocco delle esportazioni in Russia da parte dei paesi che hanno scelto di rimanere neutrali sulle sanzioni.
La scorsa settimana Gina Raimondo, segretario al Commercio degli Stati Uniti, ha offerto al pubblico alcuni dati interessanti. Ha detto, tradendo qualche sorriso, che a marzo le spedizioni cinesi di laptop in Russia sono diminuite del 40 per cento rispetto a febbraio. Ha detto che nello stesso periodo le esportazioni di smartphone, dalla Cina alla Russia, sono diminuite di due terzi. Ha detto che, nella stessa fascia temporale, le esportazioni di apparecchiature per reti di telecomunicazioni, dalla Cina alla Russia, sono diminuite del 98 per cento. E ha ricordato che il settore tecnologico rappresenta la punta di un iceberg più grande: le sanzioni alla Russia, ha detto Gina Raimondo, richiedono alle aziende di tutto il mondo di rispettare il divieto di esportazioni in Russia di apparecchiature o software prodotti o progettati in America e dato che buona parte dei chip utilizzati dalla Cina nei propri apparecchi tecnologici viene prodotta o progettata in America anche i paesi teoricamente neutrali di fronte alla scelta se scatenare la rabbia russa o quella americana scelgono di evitare la seconda rabbia.
Paul Krugman, in uno splendido editoriale pubblicato due settimane fa dal New York Times e tradotto in Italia da Internazionale, ha fatto due calcoli: a marzo le esportazioni delle democrazie alleate verso la Russia sono diminuite del 53 per cento rispetto ai livelli normali. Ma nello stesso periodo a essere diminuite sono state anche le esportazioni dai paesi neutrali o filorussi, inclusa la Cina, verso la Russia, crollate di una cifra grosso modo identica: il 45 per cento. “Immagina – scrive Krugman – di essere l’amministratore delegato di un’azienda cinese che fa affidamento su componenti prodotti in Corea del sud, Giappone o Stati Uniti. Se effettui vendite in Russia che potrebbero essere viste come un aiuto allo sforzo bellico di Putin, non ti preoccuperesti di dover affrontare tu stesso le sanzioni?”. Essere dalla parte giusta della storia oggi significa essere dalla parte giusta delle sanzioni. Le aziende lo hanno capito. Chissà quando lo capirà fino in fondo anche l’Europa.
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