Paura a Berlino
Così la guerra mina i pilastri del modello economico tedesco
La Germania è stata a lungo locomotiva d'Europa per una serie di motivi: la sicurezza garantita dagli Usa, l'intesa commerciale con la Cina e le forniture di gas russo. Ora rischiano di venirne meno i presupposti
Oggi sembra un’epoca lontanissima, difficile da ricordare, ma alla fine degli anni ’90 la Germania veniva etichettata come “il malato d’Europa”. I costi della riunificazione si erano rivelati troppo alti, l’economia era stagnante, la disoccupazione elevata e l’invecchiamento della popolazione accelerava. Tutto questo aveva messo in crisi il welfare tedesco. Qualche anno dopo le cose iniziarono a cambiare. Le riforme del governo di Gerard Schroeder e i successivi 16 anni di governi di Angela Merkel hanno costruito un’economia di straordinario successo, che pur generando squilibri ha fatto da volano per tutta l’Europa e reso Berlino la capitale più influente dell’Unione europea.
Dal 2003 al 2008 la Germania è stata il maggiore esportatore mondiale (più della Cina), permettendo al paese di superare la crisi finanziaria globale del 2008 già nel secondo e terzo trimestre del 2009 grazie a un rimbalzo delle esportazioni fuori dell’eurozona, ancora in crisi, e alla stabilità della domanda interna. Da allora la Germania registra regolarmente il più grande surplus commerciale del mondo (seguita da Giappone e Cina), permettendo di perseguire con rigore quasi dogmatico le sue politiche di pareggio di bilancio.
Il successo del modello economico tedesco, però, si è basato su alcuni pilastri che stanno venendo meno: le forniture energetiche dalla Russia (costanti e a buon mercato), le esportazioni e i trasferimenti di produzione in Cina, la sicurezza garantita dagli Stati Uniti che ha permesso alla Germania di muoversi con grande libertà nei mercati aperti della globalizzazione senza curarsi delle conseguenze geopolitiche delle proprie azioni e tenendo basse le spese per la difesa.
La guerra all’Ucraina e al mondo occidentale dichiarata da Vladimir Putin ha fatto crollare i pilastri di questo sistema, rimettendo tutto in discussione. Le considerazioni che si fanno sulla Germania valgono anche per altri paesi dell’eurozona, in primis l’Italia, ma l’entità delle interdipendenze tedesche rende la sua economia più vulnerabile alle possibili interruzioni nelle forniture energetiche russe e alle strozzature nelle catene globali del valore. A spaventare più di ogni altra cosa il cancelliere Olaf Scholz infatti è che Putin scateni la vera “opzione nucleare” per l’economia tedesca, ovvero il taglio unilaterale delle forniture di gas naturale, già messo in pratica contro Paesi Bassi e Danimarca che si sono rifiutate di pagare in rubli.
La perdita del gas russo – più economico e facile da distribuire – devasterebbe le fondamenta dell'industria tedesca. Secondo i dati raccolti da DZ Bank il gas rappresenta il 25 per cento del mix energetico tedesco. Basf, una delle più grandi multinazionali della chimica, nel suo impianto principale consuma tanta elettricità quanto l’intera Danimarca e – scrive Politico – senza gas russo non potrebbe funzionare, privando gran parte dell’industria tedesca di materiali essenziali a mandare avanti le produzioni.
Ciò spiega le timidezze, o quantomeno le ambiguità, di Scholz nel prendere posizioni nette e inequivocabili contro il regime di Putin. Ma dopo cento giorni di guerra non le giustifica, visto che ormai appare evidente che la disponibilità russa a un negoziato secondi i termini di chi desidera riportare indietro le lancette dell’orologio al 23 febbraio 2022 appare pressoché inesistente. Peraltro le opinioni di condanna del passato e del presente sono condivise e discusse nella politica e nell’opinione pubblica tedesca. Secondo Norbert Röttgen, parlamentare della Cdu esperto di politica estera da sempre contrario alle politiche di apertura alla Russia di Merkel, se l’Europa non rivede il proprio modello di eccessiva dipendenza e non impara a difendere il proprio stile di vita non sopravviverà a questa crisi.
Röttgen, a differenza di Scholz, è anche un sostenitore della proposta di Mario Draghi di imporre un price cap alle importazioni di gas dalla Russia, giudicata come l’unico compromesso possibile e accettabile in questo momento. All’interno del governo Scholz a sostenere davvero la linea della Zeitenwende, la svolta epocale, sono i Verdi della ministra degli Esteri Annalena Baerbock e del ministro dell’Energia Robert Habeck, favorevoli al riconoscimento dello status di paese candidato all’Ue per l’Ucraina e all’invio di armamenti pesanti a Kyiv. L’elettorato tedesco sembra dalla loro parte. L’ultimo sondaggio di Forsa rileva la Cdu/Csu al 29 per cento e i Verdi al 24 per cento, in crescita rispetto a febbraio. La Spd invece è scesa al 19 per cento (a gennaio era al 25 per cento). Se si votasse adesso potrebbe venire fuori un governo nero-verde. Ma in Germania si voterà nel 2025.