il reportage
Viaggio a Odessa, viva e libera da far rabbia a Putin
In questa città che ha avuto ragione di ogni tragedia, la bellezza e la cordialità servono a tornare a vivere. E le verande sul Mar Nero sfidano chi la minaccia, quelli che hanno torto. Un reportage sulla rinascita
Odessa. C’è un’aria di Odessa, a Odessa. L’aria di Odessa rende liberi. Nel lungo intervallo fra i bombardamenti di maggio e i prossimi, oltre alle milioni di tonnellate di grano, sembra che non ci sia granché di nuovo. Il privilegio rovesciato del visitatore, rispetto al tempo di pace, sta nelle cose che non si possono vedere, perché sono circondate dai sacchi di sabbia e dalle barricate di rotaie saldate e dal presidio dei militari, per metterle un po’ più al sicuro. Sull’ingresso del teatro c’è un signore magro, con gli occhialini, forse un custode, forse un primo violino, non si può entrare, dice, un po’ in tedesco, ma alla chiesa qui vicino si prepara un concerto di musica barocca. Il gran teatro nazionale dell’Opera e del Balletto tutto circondato da accurate barricate di sacchi di sabbia potrebbe essere un’installazione artistica – gli accidenti della guerra sono fotogenici. Nel video dei 100 giorni diffuso da Gennadiy Trukhanov, il vulcanico sindaco di Odessa, la catena dei volontari che spalano la sabbia sulle famose spiagge e ne riempiono i sacchi è la scena più bella. Odessa è il porto e le granaglie e tutto, ma è soprattutto la bellezza, e al genere di russi che Putin e Kirill incarnano è soprattutto la bellezza a fare rabbia. Così non si vede il mare – qualche spicchio di acqua grigia nei bacini del porto – non si vede la Scalinata Potëmkin – in cima un carro armato puntato contro il mare. Niente foto, niente video. Mi avevano illuso i racconti sugli odessiti irriducibili che si buttano sulla spiaggia e in mare nonostante siano avvertiti che è tutto minato. Avrete visto il video del grosso tipo in slip arrestato dalla polizia subacquea mentre scappava a nuoto, un vago ricordo del corridore braccato dagli elicotteri sulla spiaggia di Jesolo nel nostro lockdown.
L’altroieri mattina, al porto di Južne, mi ero infilato in un enorme mercato ortofrutticolo, sperando di riuscire a sbucare su qualche riva, e ho suscitato una scettica attenzione fra due anziane venditrici. “More?”, si dicevano con l’aria di cadere dalle nuvole. “Черное море”, sono riuscito a dire, e tutto è diventato chiaro: “– Ah, il Mar Nero!”, come se finora avessero pensato che ne volessi vedere un altro (a proposito, DeepL traduttore, che si è fatto una reputazione, ha il russo ma non ha l’ucraino, punto a favore di Google).
Le persone di Odessa sono premurose. E in qualsiasi lingua, almeno le persone giovani: tirano fuori il telefonino e non si arrendono prima di aver sviscerato il tuo itinerario e augurato tutto il meglio. Insomma, stavo come sempre quando si è all’inizio della storia. Punti dal desiderio della città d’altri. Quando ero poco più che ragazzo, pieno di letture di Trockij e di Babel’ e di Machno e di Onjegin, sognavo Alma Ata e Odessa. Le città di cui si ha nostalgia senza averle viste. Almaty l’ho vista da vecchio, grazie al ministero dell’Interno che rapì una donna e una bambina. Odessa da molto vecchio, grazie – grazie! – a un’infamia che nasconde e insieme usurpa il nome di guerra. Coi cieli chiusi, si arriva un po’ alla volta. Dall’aeroporto di Bacau, Romania, attraverso i Carpazi, il valico di confine di Albițta tra Romania e Moldavia – dove le lunghissime code di tir di Odessa, polacchi, lituani, carichi di granaglie, sconfessano i proclami sulla agevolazione dei trasporti alternativi ai porti ucraini bloccati – al confine di Palanca, col suo campo di profughi ucraini. Là il cordiale autista moldavo ti mette giù e attraversi a piedi il controllo moldavo, un po’ più lento, e quello ucraino, svelto: un militare giovane che è stato a Ferrara, Bologna e Verona e ha solo voglia di dirti in italiano com’erano belle. Nel tragitto pedestre da una frontiera all’altra un grosso cane dal bel muso bianco e nero, uno della terra di nessuno, siccome gli dico: “Ciao, cane!”, decide di unirsi a me, e quando finalmente avvisto l’autista ucraino che mi aspetta dall’altra parte – una Nissan grigia, mi aveva mandato il numero di targa – lui mi interpella stupito: “Ma sei venuto col cane!”.
I cani che chiamiamo randagi ti fanno sentire di casa dappertutto. Dal confine a Odessa ci fermiamo a un solo checkpoint, il tempo di un saluto. Sono 60 chilometri, ai bordi della strada soprattutto robinie, in Moldavia la strada era spesso scassata ma i bordi avevano filari ininterrotti di noci.
Odessa, soprattutto in centro, ha un traffico scarso. Ai benzinai – molti sono chiusi – lunghe code di auto. I russi hanno bombardato la raffineria di Kremenchuk e altri impianti, i carburanti sono importati dall’Europa, scarseggiano e costano più cari – dettaglio sfuggito ai commenti dello scetticismo italiano. Il coprifuoco, dal 25 maggio, è stato attenuato di un’ora: va dalle 23 alle 5. In quel tempo tutto scorre, o quasi, come se niente fosse. Parchi, giovanissimi e giovani, effusioni di innamorati, signore col cagnolino.
Odessa è meridionale, un mezzo napoletano la fondò, un napoletano intero musicò “O’ sole mio”, pare, in un’alba di Odessa. Odessa va pazza di balconi e verande: è come se si sporgesse. Caterina la Grande ebbe il gran merito di cambiarle il nome di Odisseo al femminile. C’è qualcosa di Penelope, nella sua tela. Odessa ha avuto ragione di tutte le tragedie. Avere ragione non basta: quelli che hanno torto prevalgono a lungo, prima di andare all’inferno. Avere ragione di – è un’altra cosa, sopravvivere di poco, e ricominciare a vivere. Anche stavolta.
Stasera c’è una banda di ottoni che suona, metà da un balcone imbandierato metà dal marciapiede, a un certo punto attaccano la “Marcia di Radetzky”. Bandiere e scritte ucraine si vedono, molto più sobriamente di quanto pensereste (assai meno che in un quartiere italiano: il pacifismo si è rovinato in bandiere). Immagini e culto di Zelensky, niente. Vado alla stazione ferroviaria, ho letto notizie confuse sul funzionamento dei treni. Funzionano, infatti, non solo sulla linea Odessa-Kyiv. La stazione di Odessa centrale risale al 1880, è delle più monumentali, fuori e dentro. Mostra il rispetto che si deve alla ferrovia, e che gli aeroporti ignorano.
Alla fine del secondo giorno l’iPhone mi avverte che ho fatto più passi che nell’intero mese precedente – 16.452. Mi viene in mente Vitaliano Trevisan, per “I quindicimila passi”, chissà che gran racconto avrebbe fatto di Odessa. Del resto racconti belli ce ne sono. Paola Mascioli, per La7, girò un servizio sugli studi cinematografici, che secondo la malaugurata portavoce del Cremlino celavano l’antiaerea della città, e poté mostrare gli ambienti della favolosa Cinecittà odessita. Fra le cose che ho letto, lodo i pezzi da e su Odessa che escono per Doppiozero a firma di Eugenio Alberti Schatz e Anna Golubovskaja.
Quando scrivo, sono qui da quattro giorni. Che cosa volete che si possa dire di Odessa che non sia stato detto, mirabilmente.
Il 9 maggio scorso Vladimir Putin depose a Mosca una corona di fiori a “Odessa, città eroica”, e andò a fare il suo sermoncino nella Piazza Rossa. Nelle stesse ore Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, visitava a sorpresa Odessa. Mica tanto a sorpresa, dal momento che l’allarme per un attacco di missili lo fece riparare in un rifugio. C’è dell’infantilismo senile in Putin. L’altroieri ha detto: “Le armi Usa? Le schiacciamo come noci”. C’è del Čajkovskij, in Putin.
Insomma, faccio come sempre, al primo corpo a corpo con la città: prendo i bus e i tram, a casaccio. I tram prediletti, anche perché, soprattutto quando hanno la guida solo su un fronte, funzionano come le circolari a Roma, che puoi fare tutto il giro. Ci puoi abitare.
Odessa vanta una rete di tram tirati da cavalli già nel 1880, elettrificata nel 1910. Sono gialli e rossi, su alcune linee non sono molto più moderni di allora. Ho preso il 12, è dei più sgangherati, il giro dura quasi due ore, esce dalla città, affronta saliscendi, si addentra in veri vicoli di una periferia povera, slabbrata e fiorita, traballando e quasi inciampando sui binari, appeso al pantografo come un paio di brache bucate. C’è ancora qualcuno che fa il lavoro meticoloso di grattare le scanalature delle rotaie? In un punto il guidatore scende impugnando un ferro rugginoso, esegue a mano lo scambio e risale per ripartire. Il comune di Odessa dà online la notizia quotidiana: “Il 5 giugno sono entrati in servizio 71 tram e 39 filobus. Il 6 giugno, 82 tram e 56 filobus. Il trasporto è attivo dalle 5:30 alle 22:00”. I bus sono l’esperienza più singolare (ve l’ho detto, non ho materiale per un reportage di guerra, e non me ne lamento). I bus sono piccoli come furgoni e assai male in arnese, e affollati – misure anti Covid nessuna. Il primo che ho preso – destinazione auspicata, il Mar Nero – era il numero 146, lo userò per una descrizione generale. Hanno il motore all’interno, accanto al guidatore, come le corriere che i vecchi come me prendevano da bambini in montagna, e ci sedevano sopra perché erano caldi. Su quel ripiano è steso uno stuoino, una cassetta dell’autista contiene in piccoli scomparti banconote di diverso taglio – da una o due grivnie a 200, non di più mi pare. 37 grivnie fanno un euro. Sparpagliati attorno sono mucchietti di monetine. I passeggeri prima di scendere gettano sullo stuoino la banconota o le monete, e se è il caso raccolgono il resto. Non ritirano nessun biglietto. Qui, mentre cercavo di raccapezzarmi, una signora mi ha sorriso, ha lanciato una sua banconota, ha preso in cambio due bigliettini da 10, e me li ha dati. Ha ritirato il suo resto e, continuando a sorridere, è scesa alla prossima fermata, quando appena capivo che mi aveva pagato il biglietto. Siete avvisati, voi che diffidate dell’Ucraina. Dunque: la scena del bus richiama inevitabilmente quella del casinò, con lo stuoino (o altri tappetini, in altri bus) in luogo del tappeto verde, e il guidatore in figura di croupier – e certi resti in monetine lustre raccattati come una vincita fortunata. Per giunta il croupier deve anche guidare e aprire e chiudere le porte. Nonostante non ci siano biglietti, non ho visto nemmeno una persona scendere senza aver versato il suo obolo – la sua puntata. Solo qualcuno mostra un documento – un’esenzione, immagino, per qualche invalidità. Gran prova di fiducia universale. E il guidatore, come garantirà di versare tutto l’incasso?
Poi ho chiesto, e mi pare di aver appurato che i tram sono comunali e i bus interamente privati. I guidatori hanno una specie di cottimo. Alla fine della giornata consegnano la cifra pattuita col datore di lavoro, che l’abbiano raggiunta o no: se l’hanno superata buon per loro, se no integrano di tasca propria. Così non è più una bella storia. Resta il fatto che i passeggeri, quelli che ho visto, mostrano un gran senso civico.
Sul famoso tram numero 5, a un certo punto, siamo rimasti in pochi. Il guidatore è sceso, avrà la sua pausa. Sono seduto davanti, per guardare, e sento venire da dietro dei fischi di richiamo, seguiti da un cinguettio. Mi volto, anche gli altri si sono voltati. Non c’è traccia di uccelli o di gabbiette. C’è un tipo segaligno, anziano, che non si è voltato e guarda fisso di fronte a sé come un santone indiano. Torniamo a girarci e riparte, fischio e cinguettio – bellissimo. Ci rivoltiamo, qualcuno sorride, quello niente. Poi ricomincia. Dopo un po’, prima che ci facciamo l’abitudine, il guidatore torna, addio fischiettii. Ci si abitua. L’altroieri un missile ha sfiorato, dicono, la centrale nucleare nel distretto di Mykolaïv, qui vicino. Anche a essere più lontani, non farebbe differenza.
Da lunedì, per due giorni, è a Odessa Claudia Roth (1955), ministra tedesca della Cultura. Roth è della generazione verde precedente quella di Annalena Baerbock (1980), ministra degli Esteri, e fu amica di Alexander Langer e con lui copresidente del gruppo verde al Parlamento europeo. Quando leggo di Alex arruolato in qualche schieramento sorrido. Sarebbe a Odessa, certo.
Di questi tempi, ogni volta che si fa una previsione, si spera davvero di sbagliarsi. Prendete la delirante intelligenza paranoica di un uomo solo e presso al trapasso. Ha un cuore asiatista, ha a cuore il “mondo russo”, ma vagheggia anche una sua striscia d’Europa. La Serbia di Vučić, dove ieri Lavrov non ha potuto volare, scherzo da legare al dito. La Republika Srpska di Banja Luka e il suo lestofante separatista, Dodik, pronto da sempre (intanto l’ambasciatore russo ha ammonito la Bosnia di stare alla larga dalla Nato, pena “conseguenze”). L’Ungheria, che si serve ai due forni, ma ha sbandierato il suo sistema di pubbliche virtù. Appena più in là c’è la Bielorussia. E volete che la smania di prendere Odessa – castigarla, cioè: la guerra fa alla città quello che lo stupro fa alla donna – e la Transnistria coi suoi 1.500 soldati russi e la Moldavia spaventata, non domini l’insonnia di Vladimir Putin? Il 28 maggio il portavoce militare di Odessa, Sergey Bratchuk, ha dichiarato: “Abbiamo ricevuto tanti missili Harpoon che possiamo affondare l’intera flotta russa del Mar Nero”. Non so se sia vero. Meglio di sì.
C’è la legge marziale, tutti lo sanno, non c’è bisogno di nessuno a ricordarlo. Salvi i luoghi presidiati, non c’è ombra di militarizzazione. Ho letto di un poeta ebreo, Jacob Fichman, che tornò a Odessa nel 1915 e poi la ricordò così: “Il porto deserto sembrava estendersi fino all’orizzonte orientale… La città stessa era piena di vita. I caffè pieni di gente… Gli anni della guerra – ho paura a dirlo – furono i più spensierati della nostra vita”.
C’è il colera a Mariupol. Al tempo della nostra Crimea, 1855, i caduti piemontesi in combattimento furono 32, più di 4 mila i morti di colera, tifo e scorbuto. Ricorsi storici. I russi hanno appena confermato la morte del generale Kutuzov.
Cose dai nostri schermi