Come l'occidente può allenarsi alla “pazienza strategica” necessaria nella guerra lunga
L’integrazione delle nuove armi, le pause tattiche e la convinzione dei leader. Chi persevera, vince
Milano. Volodymyr Zelensky rifiuta il concetto di “stallo” nella guerra, questa “non è un’opzione per noi”, ha detto il presidente ucraino in un’intervista al Financial Times, ribadendo: abbiamo bisogno del sostegno militare dell’occidente, siamo peggio equipaggiati dei russi e per questo non riusciamo ad avanzare, ma questa guerra si vince prima sul campo, solo così l’Ucraina può conservare la propria integrità territoriale. La guerra d’attrito è difficile da raccontare e difficile da vincere, le notizie dal fronte scivolano sempre più in basso nei notiziari mentre le perdite aumentano e il governo di Kyiv riprende a dividere gli alleati: per fortuna il premier inglese Boris Johnson non è caduto, ha detto Zelensky, e quanto a “non umiliare Putin”, il mantra del presidente francese Emmanuel Macron, “davvero non capisco, per otto anni i russi hanno continuato a ucciderci, di che cosa stiamo parlando?”.
Fuori dall’Ucraina, i commentatori hanno iniziato a parlare con insistenza di “pazienza strategica”, la perseveranza come mezzo e come fine per ottenere il risultato voluto. Nel 2007, nel mezzo della guerra in Iraq, l’ambasciatore americano Ryan Crocker disse in un’audizione al Senato che agli Stati Uniti mancava la “pazienza strategica e questo mi fa molta paura”. Nel suo ultimo saggio, Michael Mandelbaum, uno dei più importanti studiosi di dottrine di politica estera, dice che questo è il momento di governare le controversie.
Ogni conflitto della storia, scrive Mandelbaum in “The Four Ages of American Foreign Policy: Weak Power, Great Power, Superpower, Hyperpower”, ha creato dei dissensi e delle divisioni, ma “ciò che i nostri più grandi comandanti in capo, Washington, Lincoln e Roosevelt, avevano in comune era la capacità di tenere unito il paese nella volontà di vincere la guerra, nonostante il dissenso”. E’ un’altra formulazione della pazienza strategica, ma in questa fase della guerra, tra stanchezza e rischio di stallo, è questa la variabile che conta. Il generale in pensione Mick Ryan, generosissimo nelle sue analisi della guerra su Twitter e in televisione, spiega che nelle democrazie le opinioni cambiano, l’attenzione cala, ma questo non è un problema: il problema è non avere pazienza. E’ una questione moderna nel senso che siamo abituati ad avere tutto con rapidità e quando lo chiediamo, ma è una questione antichissima che si ritrova in molti contesti: l’impazienza spinge spesso a errori. Ma c’è una buona notizia ed è la stessa che Mandelbaum indica nel suo saggio: in certe circostanze, le più drammatiche, i paesi occidentali hanno mostrato pazienza.
Nel conflitto in corso, le forze ucraine hanno bisogno di tempo per integrare i sistemi di armamento forniti dagli alleati, perché sia i razzi a lungo raggio sia i missili antinave hanno bisogno di formazione, integrazione e manutenzione – le richiedono sempre, ancor più se un sistema della Nato deve essere adattato in un sistema di derivazione sovietica. Gli esperti militari dicono che da entrambe le parti, quella ucraina e quella russa, ci saranno delle “pause tecniche” per rivedere la propria strategia su un periodo più lungo di tempo. Ai governi occidentali spetta il compito non facile e soprattutto non popolare di mantenere la pazienza mentre i costi aumentano e l’attenzione cala. Eliot Cohen ha scritto sull’Atlantic di non aver mai partecipato ai corsi di preparazione dell’esercito americano, nove settimane persi nei boschi. Ma conosce molti che li hanno fatti e dicono che la cosa più importante che hanno imparato è: “Completare la missione anche se sono l’unico sopravvissuto”. Chi è paziente, chi persevera, vince.