Da Huawei al petrolio. Pure con Putin la Cina pensa sempre prima a sé
La posizione di Pechino inizia a essere piuttosto chiara: si tratta soprattutto di opportunismo. Non esiste solidarietà o fedeltà a Mosca, ma esiste la cinica opportunità cinese
Roma. Il colosso cinese delle telecomunicazioni, Huawei, ha iniziato a chiudere i suoi punti vendita in Russia. Secondo quanto riportato dall’agenzia russa Ria Novosti, il primo store avrebbe chiuso il 28 febbraio, cioè quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A oggi, 4 dei 19 negozi Huawei nel paese sono stati già dismessi, e altri verranno chiusi nelle prossime settimane. Ufficialmente il problema riguarderebbe “la carenza di prodotti nei magazzini, nonché una diminuzione della domanda di smartphone”. Già subito dopo le prime sanzioni americane imposte contro la Russia, ormai più di tre mesi fa, erano iniziate a circolare voci sul fatto che il colosso cinese aveva messo in ferie forzate alcuni dei suoi dipendenti degli uffici in Russia. Secondo Forbes, gli ordini nel paese erano stati sospesi per paura di sanzioni secondarie – che potrebbero essere compromettenti per Huawei, già colpita da provvedimenti restrittivi da parte dell’America.
La chiusura dei negozi Huawei in Russia è una conseguenza prevedibile della messa in sicurezza di una filiera fondamentale per la Cina, ma è sufficiente leggere un po’ di commenti di utenti russi alla notizia pubblicata sul sito dell’agenzia per capire come è stata interpretata: qualcuno dice che Huawei in realtà non sta lasciando davvero il paese, ma chiude soltanto alcuni negozi perché già da prima della guerra non riusciva a vendere i suoi smartphone. Qualcun altro, però, se la prende direttamente con Pechino: “Bene, ecco un altro ‘coltello piantato nella schiena’ dagli ‘amici’ cinesi. La Cina ha un solo amico, la Cina stessa”, scrive Aurora, “solo un idiota può credere alla Cina, che è diventata così ricca solo perché negli anni Settanta ha tradito l’Unione sovietica ed è caduta sotto l’America”, scrive Yuri. Quattro negozi Huawei chiudono in Russia e c’è chi parla di tradimento, come quello dello split sino-sovietico, quando negli anni Sessanta la Cina maoista abbandonò Mosca e nel giro di un decennio si tenne la visita a Pechino del presidente americano Richard Nixon.
Sin dall’inizio della guerra, scoppiata una ventina di giorni dopo che il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il leader cinese Xi Jinping avevano firmato una partnership “senza limiti”, la Cina ha mantenuto una posizione di neutralità apparente e interessata. Come prevedibile, non ha mai condannato ufficialmente le azioni russe. Xi ha parlato al telefono più volte con Putin, mai con il presidente ucraino Zelensky. Nelle prime settimane di conflitto, l’intelligence americana ha diffuso notizie riguardo a presunte richieste d’aiuto da parte della Russia nei confronti della Cina, e la coalizione occidentale si è poi impegnata molto per avvertire Pechino: chiunque aiuti materialmente la Russia sarà punito. Non era ancora prevedibile cosa avrebbe fatto la Cina di fronte alla prima grande crisi internazionale da quando è diventata la seconda potenza del mondo, ma adesso la sua posizione inizia a essere piuttosto chiara: si tratta soprattutto di opportunismo. E’ un grande mantra della leadership cinese, quello di trasformare ogni crisi in opportunità (l’abbiamo visto col Covid e con i vaccini e le mascherine esportati all’estero). Ed è con questa logica che spesso leggiamo, da parte di Pechino, segnali apparentemente contraddittori ma che in realtà si spiegano nel modo più semplice: non esiste solidarietà o fedeltà a Mosca – è una partnership e non un’alleanza proprio per questo motivo – ma esiste la cinica opportunità cinese. Se l’armata comunicativa di Xi Jinping rilancia pedissequamente la propaganda del Cremlino è perché la situazione è perfetta per uno degli obiettivi politici fondamentali di Pechino, cioè smantellare l’ordine internazionale, screditare l’America, la coalizione dello stato di diritto e la Nato.
Allo stesso tempo però, alla Cina non conviene farsi tirare giù nel baratro dell’isolamento di Putin. Ha impiegato anni a trasformarsi in una potenza tecnologica, il Covid ha già rallentato sia la produzione sia l’export cinese, che ora ha bisogno più che mai dei mercati occidentali. E così, come ha scritto il Wall Street Journal in un’indagine esclusiva sulla tecnologia cinese in Russia, le esportazioni di laptop cinesi verso il paese, a marzo 2022, sono diminuite del 40 per cento rispetto al mese precedente, mentre quelle di smartphone sono almeno due terzi in meno. L’export di apparecchiature per le reti di telecomunicazione è diminuito del 98 per cento. Il problema riguarda non solo la paura dell’effetto delle sanzioni, ma anche la politica Zero Covid in Cina e il congelamento di alcune delle aree più importanti della produzione e del commercio cinese, come quella di Shanghai. Anche il settore bancario cinese sta progressivamente limitando il suo “sostegno” alla Russia: la banca russa Sberbank, sotto sanzioni da parte di America e Regno Unito, ha sospeso le transazioni in yuan perché i partner in Cina sono preoccupati di finire nei guai agevolando Mosca ad aggirare le sanzioni. Anche il circuito di carte di credito cinese, UnionPay, non vuole avere troppo a che fare con gli istituti bancari russi.
Per ora Pechino sostiene il Cremlino in modi più politici: per esempio all’Onu, dove si è astenuta a ogni risoluzione contro la Russia. E poi, certo, c’è il petrolio e il settore energetico, di cui la Cina ha estremo bisogno: secondo i dati di Refinitiv citati dal Nikkei, a maggio 2022 Pechino ha importato circa ottocentomila barili di petrolio russo al giorno, una cifra che non include il petrolio consegnato tramite oleodotti. Sin da gennaio, il volume delle importazioni è aumentato di oltre il 40 per cento. Il petrolio russo costa meno, ed è un’occasione unica per i rifornimenti cinesi. Pechino funziona così: anche di fronte alla guerra e a una crisi globale, non ha alleati né senso di responsabilità da grande potenza. Pensa solo a dove guadagnare qualcosa: perfino peggio del cinico capitalismo che tanto disprezza.
I conservatori inglesi