La crisi dei social e dell'indignazione permanente spiegata dal caso Felicia Sonmez
Il Washington post ha licenziato la giornalista
Tutto è partito da un tweet, come molte delle operazioni scandalo del mondo post MeToo. Un luogo pericolosissimo, dove basta un click per distruggere vite e carriere
Il Washington Post ha combattuto molte battaglie da quando è stato fondato quasi centocinquanta anni fa, giocando un ruolo chiave nel giornalismo investigativo, acquisendo il ruolo di vero quarto potere nel gioco di pesi e contrappesi del sistema democratico americano. Watergate, Pentagon e Pandora papers, per citarne alcuni. In questi giorni è in prima linea per raccontare al pubblico i primi risultati delle audizioni della commissione della Camera che nell’ultimo anno ha raccolto pareri e documenti sull’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, processo che avrà notevole impatto sulle elezioni di metà mandato e sulle prossime presidenziali.
Ma c’è anche un’altra fastidiosa questione con cui il giornale ha dovuto avere a che fare nell’ultimo periodo e riguarda una delle sue dipendenti. La giornalista Felicia Sonmez, nata nel 1983, laurea ad Harvard, già reporter da Pechino e poi nella squadra politica del Post, giovedì è stata licenziata. Le motivazioni? Per insubordinazione, per aver screditato i propri colleghi online e per aver violato gli standard del giornale nel luogo di lavoro.
Tutto è partito da un tweet, come molte delle operazioni scandalo del mondo post MeToo. Un luogo pericolosissimo, dove basta un click per distruggere vite e carriere. Il collega Dave Weigl ha ripostato la battuta di un comico, “Tutte le ragazze sono bi, bisogna solo capire se polari o sessuali”. Lei ha scritto sarcastica: “Fantastico lavorare in un giornale dove ritweet come questi sono ammessi!”. Weigl ha cancellato il retweet, si è scusato. Non è bastato. E’ stato sospeso senza paga per un mese. Ma questa punizione secondo Sonmez non è stata sufficiente, e ha trasformato l’accaduto in una campagna per attaccare Weigl, altri colleghi e infine il giornale, usando la parolina magica dei social justice warriors: “Problema sistemico”.
“Tutti facciamo delle cavolate”, le ha risposto il collega Jose A. Del Real su Twitter dicendole che rischiava di far diventare bullismo quello che poteva essere invece un dialogo sull’inclusività. “Per me è importantissimo combattere il sessismo e la misoginia”, ha continuato Del Real, “ma spero tu possa rivalutare questi frequenti attacchi crudeli verso i tuoi colleghi”. Sonmez si è scagliata anche contro di lui. Il quotidiano ha fatto quindi girare un memo chiedendo ai dipendenti di non insultarsi a vicenda online. Molte firme del giornale hanno scritto sui social di esser orgogliosi di lavorare lì. Ma Sonmez non si è fermata, suggerendo che al Washington Post si lavora bene solo se si è bianchi e ben pagati. “Perché non te ne vai se non piace il posto dove lavori?”, le ha scritto qualcuno in risposta.
Non è la prima volta che le azioni di Sonmez fanno notizia. Il giorno della morte di Kobe Bryant aveva postato un articolo che faceva riferimento alle accuse di stupro mosse verso la star Nba, questo le era costata una sospensione e la difesa di vari colleghi – tra cui Dave Weigl! – e un po’ di fama. A marzo aveva fatto causa per discriminazione al suo giornale perché non l’aveva mandata a coprire certi processi, secondo lei “in quanto donna e/o vittima di violenza sessuale”. Il giudice aveva respinto la causa non trovando alcun comportamento sbagliato da parte del Post. Osservando il suo profilo Twitter, sembra che Felicia Sonmez stia ora giocando la carta della donna coraggiosa che ha cercato di estirpare il male dal Post, della martire che si è immolata per combattere il sessismo, dividendo il mondo tra amici e nemici, tra chi la difende e chi invece è “parte del problema”.
Ci sono tanti modi per fare carriera nel giornalismo, farsi vedere, far parlare di sé, avere quei quindici minuti di celebrità per uscire fuori dalla massa – dopotutto al Post lavorano oltre mille giornalisti. Per raggiungere la notorietà si può vincere un Pulitzer, fare reportage sotto i bombardamenti, investigare per anni le storture della politica, inserirsi sotto copertura in una gang criminale, andare a frugare nei file dell’Fbi, essere degli analisti profetici, oppure trasformare in una lotta identitaria una scemenza come un retweet.