Contro l'indifferenza

Liz Cheney, Zelensky e Obama spiegano quanta forza ci vuole per salvare la democrazia

L'inchiesta del 6 gennaio vs il Democracy Summit. Lezioni su quel che non si può perdere

Paola Peduzzi

 A guardarli insieme si vede limpido quel che ci ripetiamo da tempo e che ora è diventato urgente, e brutale: se non la difendi con forza, è un attimo che la perdi

Due schermi, su uno la prima audizione in diretta tv della commissione del Congresso americano che indaga sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021; sull’altro il vertice dell’Alleanza delle democrazie a Copenaghen, dove ieri mattina ha parlato Volodymyr Zelensky e poi, a chiudere i lavori, l’ex presidente americano Barack Obama. A guardarli insieme si vede limpido quel che ci ripetiamo da tempo e che ora è diventato urgente, e brutale: se non la difendi con forza, la democrazia, è un attimo che la perdi. 

 

Alla prima audizione in prime time dell’assalto al Congresso, la repubblicana Liz Cheney ha aperto i lavori (e lo show) con un discorso la cui sintesi è: “Dico ai miei colleghi repubblicani che difendono l’indifendibile: arriverà il giorno in cui Donald Trump se ne andrà, ma il vostro disonore rimarrà”. Cheney si rivolge ai colleghi del suo partito perché è il loro ruolo ad aver fatto la differenza  in quel che è accaduto il 6 gennaio, e dopo. Non schierarsi contro un atto sovversivo indipendentemente dalle responsabilità dell’allora presidente Trump – questa commissione è stata istituita apposta per individuarle, queste responsabilità – e anzi finire per sminuirne la portata è il disonore che denuncia la Cheney – sono soltanto due i repubblicani dentro questa commissione d’inchiesta, perché già per la sua istituzione c’erano state molte resistenze: ai tempi del Watergate, cinquant’anni fa, tutti i repubblicani votarono a favore dell’indagine.

 

La Cheney rischia anche il suo posto perché i trumpiani stanno facendo una campagna durissima contro di lei per farla perdere alle elezioni di metà mandato. Ma fin dal gennaio del 2020, lei ha capito che andava tracciata una linea: l’assalto al Congresso da parte di sostenitori di Trump era un atto contro la democrazia e le istituzioni democratiche avevano il dovere di condannarlo e di comprendere quanto Trump vi avesse contribuito. Non era più una questione di partito, di fedeltà al capo, di appartenenza, ma di difesa del sistema democratico americano che quella folla voleva sovvertire stravolgendo il risultato delle elezioni. Per quanto riguarda le responsabilità di Trump poi, più passa il tempo più arrivano prove del fatto che il 6 gennaio era stato segnato sul calendario come il giorno dell’eversione e che tutto il team presidenziale ha lavorato perché quel giorno non si compisse il rito della certificazione dei risultati elettorali. Lo stesso Trump era disposto a tutto, a non ascoltare chi gli diceva che non c’era possibilità di ribaltare l’esito elettorale se non con la forza, a dire che se la folla gridava di impiccare il suo vice, Mike Pence, che presiedeva alla certificazione, forse aveva ragione, Pence “se lo merita”. Più passa il tempo insomma più si trovano prove del fatto che quell’assalto era il frutto di un piano escogitato dal presidente uscente. Tecnicamente si chiama colpo di stato. 

 

Sullo schermo a fianco ieri mattina c’era il presidente di un paese democratico che è stato invaso dal paese vicino con l’obiettivo di conquistarlo. Zelensky si è collegato al Democracy Summit di Copenaghen e ha ricordato che dall’inizio della guerra, che lui giustamente pone nel 2014 quando per la prima volta Vladimir Putin ha stravolto l’integrità territoriale dell’Ucraina, la Russia ha violato circa 400 trattati internazionali diversi. Ne ha citati molti, si è soffermato sul memorandum di Budapest, con il quale nel 1994 l’Ucraina ha consegnato le sue armi nucleari in cambio di garanzie di sicurezza che la stessa Russia aveva detto di voler dare. Putin ha violato le regole che tengono insieme tutte le democrazie, non soltanto quelle dei rapporti bilaterali tra Kyiv e Mosca. Ancora una volta Zelensky ci ha ricordato che per difendere i propri sistemi e le proprie regole a volte è necessario usare la forza, a meno che non si voglia prendere il rischio di perdere tutto quel che si è costruito.

 

Qualche ora dopo, alla conclusione del Summit, Obama ha tenuto il suo discorso, in cui ha detto che “la democrazia non è inevitabile e non funziona da sola”, ha bisogno di essere sostenuta e protetta ovunque, quando viene attaccata con un’azione conclamata come un’invasione ma anche quando viene stropicciata da continui movimenti eversivi: nessuno si deve sentire al sicuro, guardate cosa è successo a casa mia, ha detto l’ex presidente. Obama ha poi indicato quattro vie per rafforzare le democrazie, quelle minate dall’interno e dal fatto di aver esaurito lo slancio verso il progresso: un capitalismo più inclusivo, la rivitalizzazione delle istituzioni politiche, una nuova cultura democratica adatta a un mondo globale, la detossificazione del dibattito pubblico. 

 

Mentre parlava della nuova cultura democratica, Obama ha detto una cosa che vale anche per la guerra, per l’alleanza occidentale, per chi, sull’altro schermo cerca di evitare un altro 6 gennaio: non bisogna restare indifferenti. L’indifferenza e l’impazienza sono le nemiche della democrazia, e fanno il gioco degli altri, i demolitori del nostro ordine globale.
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi