Armi, armi e ancora armi
Troppa complessità, Santo padre: in Ucraina servono le armi
Le parole del Papa e quelle dei cardinali. Ma qui la storia dell’aggressore e dell’aggredito è tanto noiosa quanto vera. La armi sono la risposta alla domanda “cosa manca oggi” a Kyiv. E se è vero che servono anche le preghiere, come dice il Vaticano, è anche vero che non aiutare chi è aggredito significa darla vinta all’aggressore
Odessa, dal nostro inviato. In una estemporanea rassegna stampa vorrei cominciare da Guido Viale, che amo, e di cui ammiro intelligenza e integrità – dissentire dai propri personali avversari è stucchevole. Ieri Viale concludeva, dopo aver evocato la tragica lezione di Verdun: “Per questo, oltre alle sacrosante carovane della pace e alle prospettate iniziative di interposizione, le possibilità di un armistizio passano oggi per la lotta senza quartiere contro l’invio di armi in Ucraina”. A me sembra, lo dico rozzamente, che, senza le armi, sull’Ucraina incomba non un armistizio ma una disfatta, che la metterebbe intera alla mercé della soperchieria di Putin. Come mai una constatazione così elementarmente evidente per me è per il mio amico Viale l’evidenza opposta, propugnata “senza quartiere”? Ci sono due contendenti che si sparano addosso, con diverso animo – gli uni al servizio, spesso rassegnato, di un’aggressione, gli altri alla difesa della propria terra e della propria gente – e con una accertata sproporzione di risorse. Uno dei contendenti, quello che per tutti (quasi, il delirio esiste, e anche l’infamia), naturalmente anche per Viale, è l’aggressore, non ha alcuna intenzione di cessare il fuoco. Se lo facesse l’altro, per scelta o perché è vuoto di munizioni, non diventerebbe soltanto un bersaglio inerme?
Sento: ma la fornitura di armi, lungi dall’avvicinare la tregua e ancor meno la pace, ha protratto il massacro, reso più rischioso il contagio, riempito le fosse ed esacerbato gli animi. Dunque, non c’è altra via che smettere di armare. Come si voleva fin dal primo giorno, e il risultato sarebbe stato la resa, la fine dell’indipendenza ucraina, l’umiliazione della sua gente, un gran passo ulteriore nella “riconquista” della Russia di Putin. Il quale ha un ricordo strampalato di Lenin, ma persegue una sua versione della parola d’ordine che gli permise assurdamente di vincere nel 1917: trasformare la guerra fra gli stati in guerra civile. Si muove guerra, si arriva a lambire Kyiv, nella corte di palazzo ucraina si rovescia un governo già debole e si insedia un Quisling. Però va male, molto male, e allora bisogna cominciare daccapo, dalla periferia in cui una varietà di guerra civile era in corso dal 2014 – Viale crede, unilateralmente, che si trattasse di irredentismo russo vessato e bombardato da Kyiv – strappando in ogni nuovo pezzo di territorio, conquistato annientando, il consenso di una parte della popolazione restante, nel cui nome proclamarsi liberatrice.
Non faccio un passo, in questo soggiorno, senza pensare ai milioni di fuggiti, profughi o sfollati, senza immaginare, nelle facce che incrocio, le facce che mancano al conto: come se, fatte le proporzioni, un viaggiatore girasse per un’Italia cui siano di colpo mancati dieci o undici milioni dei suoi abitanti. La Crimea era stata un boccone esemplare. E la meraviglia della Cecenia, dove un genocidio è approdato a un regime di servi-padroni arruolati a far da sicari – di seconda fila, peraltro: Kadyrovcy, non ceceni, li chiamano qui, e “guerrieri da Tik-Tok”? Odessa ha addosso, da quel 1914, una macchia largamente immeritata, perché i protagonisti principali le furono estranei: gli scontri sanguinosi culminati il 2 maggio nella strage della Casa dei sindacati, che non a caso Putin rievoca costantemente, allo stesso modo in cui rievoca il “genocidio” del Donbas: all’origine di quella ferocia di estremismi davvero opposti, in cui l’estrema destra nazionalista si valse finalmente della complicità delle forze dell’ordine, si consumò anche la resa dei conti con la fazione filorussa, illusa di poter forzare la mano a una soluzione come quella di Crimea. Dopo di allora, l’illusione cadde, una parte della popolazione russa lasciò la città, e soprattutto si mostrò come fosse infondata l’identificazione fra la lingua parlata e la patria scelta dalle persone: che è, mi pare, la più forte lezione di questa resistenza ucraina, e la più ottusamente incompresa dal Cremlino.
Ancora un paio di giorni fa leggevo sul Corriere per la firma proverbialmente “realistica” di Sergio Romano, un nostro Kissinger nella scala della potenza, l’auspicio di un compromesso, se non ho frainteso, basato sulla lingua prevalentemente parlata nelle diverse località.
L’Ucraina ne è la sconfessione plateale. A Odessa tutti parlano russo, la maggioranza solo russo: vi dicono, i più, che intendono d’ora in poi parlare ucraino, e che comunque d’ora sarà quello che si insegnerà ai bambini. C’è anche chi è deciso a non lasciare ai russi il monopolio della lingua – posizione magnifica: la lingua è più larga delle frontiere degli stati – e in ogni caso l’identificazione fra russofonia e russofilia è definitivamente saltata.
Naturalmente, il fuoco della collaborazione con la Russia vincitrice cova sotto la cenere dei bombardamenti, e il trionfo dell’armata di Putin – dei suoi mercenari, come li chiama Bergoglio, che ha scelto di dire, se non tutto, di tutto – non si tradurrebbe solo nella resa e nella sottomissione del regime politico eletto di Kyiv, ma nel suo ricambio, uno Yanukovich ridipinto, un Lukashenka rimpannucciato. L’Ucraina parlamentare e il suo governo sarebbero gli eversori (i drogati, i nazisti) sconfitti nella guerra civile dalla resistenza del popolo ucraino sostenuto dai suoi fratelli moscoviti.
Se si mandano armi, si mandino più appelli e preghiere di pace – mi pare che abbia detto qualcosa del genere il cardinale Zuppi. Il suo confratello, nunzio a Kyiv, ha detto: “Si fermino le armi”. Leggo: tutte le armi. Anche i cardinali, anche il Papa, non possono cedere all’idea che si fermino solo le armi di una parte, e tanto meno con “una lotta senza quartiere”. La Stampa dell’altroieri, lasciandomi interdetto, intitolava, attribuendolo a Francesco: “La Nato ha provocato Putin”. Non aveva detto così, ma quasi (“questa guerra che è stata forse in qualche modo provocata o non impedita”). Importa, il quasi. Non ci sono buoni e cattivi, Cappuccetto Rosso e il lupo, ha detto: ancora un passo, e saremmo stati all’elogio di Franti. Ma non l’ha fatto quell’intero passo. Un profetico capo di stato aveva avvertito il Papa della Nato che abbaiava alle porte della Russia: in verità quell’avvertimento era diffusissimo, per esempio nella grande stampa americana e nello stesso establishment, benché se ne vedesse per lo più la distanza dall’invasione di un paese d’Europa. “Ci possono essere concause – ha detto il nunzio di Kyiv – ma non è il momento di indagarle. Di fronte alle atrocità, alla disumanità che vediamo, quelle domande perdono senso, perché non c’è nessun’altra scelta che si possa giustificare se non quella di fermare le armi. Non vedo mediazioni politiche efficaci. Chi sta attaccando deve porre fine allo spargimento di sangue”. E ancora, a proposito della domanda se sia giusto mandare le armi agli ucraini: “La domanda non può riguardare solo l’Ucraina ma ancora prima di essa, la Russia”. Siamo alla constatazione elementare da cui sono partito. Se due si sparano, e chi ha cominciato è entusiasta di continuare, e si disarma l’altro, si sta dando mano a un assassinio a sangue freddo.
La conversazione con Francesco è stata pubblicata con un certo ritardo, e soffre un po’ della zavorra depositata sul nome di complessità: “Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra buoni e cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi”. Troppa complessità, Santo Padre. Abbasso il manicheismo, forse: ma qui la storia dell’aggressore e dell’aggredito, sarà noiosa, ma è vera verissima, e i mesi e i morti che passano non la rendono meno vera, al contrario.
Ho letto anche il resto, s’intende: l’ammirazione per l’eroismo degli ucraini opposto alla ferocia mercenaria russa, la pena per i giovani mandati a crepare e farsi uccidere da vecchi, la stima e la paura per il destino delle giovani donne destinate a restar sole. Non è il resto, sono le cose essenziali. C’era da aspettarsi che le persone, perché la vita si riprende diritti e privilegi, diventassero stufe di questa petulante insistenza degli ucraini che chiedono armi e armi e altre armi. Tuttavia nella cucina degli ucraini sul cartellino con il promemoria “CHE COSA MANCA OGGI” è scritto: armi, armi, e ancora armi. Quando ti sparano addosso è difficile variare l’elenco delle priorità. Certo, è la cosa peggiore che poteva succedere. Lascerò anche l’ultima riga a quel Nunzio apostolico di Kyiv: “Non vedo altre vie d’uscita se non invocare il Signore”.
Adriano Sofri